E’ sempre più dibattuto il tema sull’intelligenza artificiale; come sostenuto su una nota rivista che affronta le problematiche sottese alle nuove tecnologie, “…improvvisamente, l’intelligenza artificiale è dappertutto. Si pone come il prossimo Mozart che ascolterai rapito, come il prossimo Cezanne che ammirerai al MoMA, come una sorta di premuroso cameriere”. Guardando al concreto, però, nessuno sa di cosa si tratti e, specialmente, quali siano le sue reali capacità operative, al di là delle fantasticherie innervate di fantascienza. Pochi sanno rispondere alla domanda se l’essere umano di oggi sia già immerso all’interno di forme di intelligenza artificiale oppure questo tema sia ancora poco più di una provocazione; come, appunto, immaginare un Mozart cibernetico che compone sublimi musiche capaci di vincere quel bisogno atavico dell’uomo di riempire la propria trascendenza della solitudine, consistente nel dramma interiore di dover vivere nel contingente delle cose, avendo un cervello che sa astrarre da quella gabbia di realtà il pensiero, i sentimenti e le angosce.

E’ incredibile pensare che l’intelligenza artificiale possa intervenire in questo spazio dell’essere, che “più intima non ce n’è”. E’ vertiginoso pensare ad un Dio cibernetico oppure ad un compositore cibernetico. Ma ci siamo quasi; anche se passa inosservato. E’ già attuale il medico artificiale e stiamo sperimentando il politico artificiale ed il giudice algoritmico. Tutto questo attraverso, appunto, la realizzazione di sistemi di base astratti, detti appunto algoritmi. Questa modalità di calcolo matematico-statistico, pur non conoscendo direttamente il paziente e non sapendo se “l’io” che vi si sottopone è malato oppure no, sfruttando dei parametri prestabiliti, attua un sistema di allarme “intelligente”. Come recita la rivista, “…il primo contatto con la sanità potrebbe non essere un medico o un infermiere, bensì il nostro assistente digitale personale”. La “formattazione” (cioè la natura artificiale) dei cervelli e del mondo che ci circonda è così già in atto. Ci viviamo dentro pensando di essere ancora nell’ “anciene regime” dei rapporti umani, mentre siamo nel “nuovo regime” dei cyborg umani. La politica e la giustizia non sono da meno.

Non si deve ancora parlare di algoritmi che sappiano individuare la creazione delle leggi migliori o delle decisioni più corrette in un processo, ma non può negarsi che, sia i politici che i giudici, sempre più spesso, costruiscano dei paradigmi per aggirare il contingente e l’incertezza causata dal doversi muovere nel labirinto della realtà. Queste forme di “intelligenza artificiale primordiale”, formate da schemi astratti da applicarsi alle diverse situazioni reali, sono algoritmi nella loro formulazione originaria; laddove l’algoritmo è il modo di risolvere un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari.

Le prime nozioni di algoritmo si trovano nei papiri di Ahmes (XVII secolo d.C.) che farebbero riferimento ad altri scritti di XII secoli prima; insomma, nulla di paragonabile all’dea dei cervelli cibernetici di oggi, ma pur sempre algoritmi, anch’essi primordiali. Ed allora come non pensare al “contratto” politico di questi giorni; un “papiro astratto” (“alla Ahmes”) che dovrebbe fungere da guida “preventiva e curativa” per i problemi dell’Italia? La politica dovrebbe essere ben altro: arte della comprensione del contingente, espressione di visioni anche utopiche, capacità (silenziosa) di portare una collettività governata verso punti d’arrivo nuovi, frutto di alti ragionamenti di sistema. Tutto diverso da questo contratto politico che altro non è che un semplice algoritmo che dovrebbe artificiosamente risolvere la grandezza e la complessità del vivere comune degli italiani, proprio come l’algoritmo medico dovrebbe prevedere la presenza delle malattie senza visitare o conoscere il paziente. Ed allora tanto varrebbe, come si pensa di sostituire il medico con l’assistente digitale, di sostituire il politico in carne ed ossa con un microchip; potrebbe essere questo il premier dell’algoritmo?

Passando al fronte della giustizia le cose non vanno diversamente. La giustizia (anche non per forza tributaria) vive di studi di settore che altro non sono se non algoritmi inquisitori capaci di addossare colpe e responsabilità senza nessun contatto diretto con l’eretico. La giustizia soffre anch’essa di questo bisogno di “artificialità” dato dal sistema semplificativo dell’algoritmo, in sostituzione della reale comprensione del contingente. A questo proposito basta pensare a tutta la materia dell’antiriciclaggio e del delitto di riciclaggio dove, un po’ come nella materia tributaria, è l’algoritmo predeterminato ad offrire quelle diagnosi e previsioni di sospetto di utilizzo di “denaro sporco” che, a loro volta, divengono la prova nel processo dei comportamenti di riciclaggio. Dopo l’eliminazione del medico a favore del “digital doctor”; del politico con il suo sostituto artificiale costruito contrattualmente a tavolino; ecco l’arrivo del giudice digitale che stabilisce la responsabilità dell’accusato sulla base di astratte concatenazioni di “numeri e simboli”.

Come direbbero i politici di questa supposta “rivoluzione culturale”, dopo i fallimenti dei sistemi tradizionali (cioè dell’uomo come soggetto cosciente) è il tempo di sperimentare i nuovi sistemi (la macchina e le piattaforme digitali). Certamente questa visione utopica porta ad una riqualificazione del mondo in senso orwelliano e dell’uomo come un mero programmatore di intelligenze artificiali. L’impressione è che questo nuovo mondo crei una versione artificiale del vecchio rivisitato in modalità format predeterminato.

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