“Sono stata spinta a fare quello che ho fatto perché ero sempre legata […] C’era una suora che in cambio di tutto quel lavoro forzato, mi ricompensava con giubbotto e punture […] Ci legavano come Cristo in croce”. Sono queste le ultime parole pronunciate da Antonia Bernardini al pubblico ministero nella sala rianimazione dell’ospedale Cardarelli di Napoli, dove è morta il 31 dicembre 1974 dopo quattro giorni di agonia a causa alle ustioni riportate su tutto il corpo, dopo che con un fiammifero ha incendiato il materasso del letto del manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli dove era ricoverata. Un gesto arrivato dopo 43 giorni consecutivi di contenzione. Antonia voleva un bicchiere d’acqua, nessuno le dava retta.

Una vicenda che, all’epoca, fece scalpore rimbalzando sulle principali testate giornalistiche alimentando un dibattito pubblico sui metodi di cura adottati nei manicomi, in particolare, sulla contenzione e sulla disumanità che regnava in quelle strutture. Una storia, quella di Antonia Bernardini, che è stata dimenticata per parecchi anni ma che, grazie al giornalista Dario Stefano Dall’Aquila e al ricercatore Antonio Esposito, è tornata d’attualità nel libro scritto a quattro mani “Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio” (editrice Sensibili alle foglie).

Il libro, uscito nell’ottobre scorso, verrà utilizzato come spunto venerdì 18 maggio al Festival dei Matti di Venezia per parlare del tema delle malattie mentali, delle cure e della trasformazione delle strutture di cura, oggi che i manicomi non ci sono più e che anche gli ospedali psichiatrico giudiziari sono stati chiusi e trasformati in Rems. Una vicenda che ricorda quella più recente che, nel 2009 a legge Basaglia ampiamente approvata (ha compiuto 40 anni lo scorso 13 maggio), ha visto il maestro Francesco Mastrogiovanni morire dopo 90 ore di contenzione, legato a un letto del centro di salute mentale dell’ospedale San Luca, in Vallo della Lucania, dove era stato ricoverato per un trattamento sanitario obbligatorio.

“Abbiamo deciso di recuperare questa storia – spiegano Esposito e Dall’Aquila a Ilfattoquotidiano.it – perché ci siamo resi conto che, dopo il clamore suscitato all’epoca, poi se ne è persa quasi totalmente memoria. Eppure, la storia di Antonia Bernardini può essere considerata simbolica perché, qualche anno prima dell’approvazione della legge Basaglia che farà chiudere i manicomi, portò prepotentemente nel dibattito pubblico dell’epoca il tema di queste strutture come luoghi d’orrore e disumanità, dove il malato era abbandonato a se stesso e si praticava la contenzione fisica, ma anche farmacologica, come metodo di ‘cura’ quasi sistematico”. La morte di Antonia, per come avviene, porta anche alla decisione di chiudere il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli e finiscono sotto processo il direttore dell’istituto, il vicedirettore, una suora e tre vigilatrici. Condannati in primo grado, vengono tutti assolti in appello.

La storia di Antonia è fatta di sofferenze, problemi economici e una salute mentale fragile. Antonia ci prova a farsi una vita ‘normale’, cerca di costruirsi una famiglia. Si sposa giovanissima e ha una figlia con un uomo dal quale si separa nel 1972. Gli psichiatri dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, dove è stata ricoverata in più occasioni, le diagnosticano una ‘distimica recidivante’, insomma depressione. Lo stigma della malattia mentale la perseguita da sempre, ma la sua discesa agli inferi del manicomio giudiziario inizia una mattina d’autunno del 1973. Durante una crisi depressiva, Antonia, all’età di 40 anni, decide di andare a Reggio Emilia, dove già l’avevano curata per questi disturbi.

Alla stazione Termini, mentre è in fila per il biglietto, ha una banale discussione con una signora. Interviene un giovane che la spintona e lei reagisce schiaffeggiandolo. Il giovane si qualifica come carabiniere, la Bernardini viene arrestata e mandata a Rebibbia, da dove, constatate le sue condizioni mentali, viene trasferita prima all’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà e poi al manicomio giudiziario di Pozzuoli per essere sottoposta a osservazione in attesa del processo. A Pozzuoli rimane un anno e due mesi nel corso dei quali viene ripetutamente sottoposta a forme di contenzione, legata al letto. Quello stesso letto in cui trova la morte dopo quarantatré giorni consecutivi di contenzione. Antonia accende un fiammifero per attirare l’attenzione degli infermieri e incendia il materasso che prende fuoco avvolgendola nelle fiamme. Voleva solo un po’ d’acqua e d’attenzione. Muore per le gravi ustioni riportate dopo quattro giorni di agonia all’ospedale Cardarelli di Napoli. Era il 31 dicembre del 1974.

“La storia di Antonia Bernardini – spiegano ancora Esposito e Dall’Aquila – può essere considerata simbolica anche oggi, perché nonostante la chiusura dei manicomi e tanti passi in avanti fatti in tema di cura della salute mentale, in Italia, si fa ancora molto uso dei Tso e della contenzione, sia fisica che farmacologica”. I dati del ministero della Salute, pubblicati lo scorso 2 maggio, dicono che su 98mila ricoveri nei reparti ospedalieri che si occupano di salute mentale, sono stati 8mila i Tso applicati. Stime ricavate dall’associazione “A Buon Diritto” e dalla campagna contro la contenzione nei luoghi di cura “E tu slegalo subito” evidenziano che nel 60% degli Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) italiani si fa ricorso alla contenzione, il che vuol dire 20 contenzioni ogni 100 ricoveri.  “A Trieste – dicono ancora Esposito e Dall’Aquila – abbiamo il numero più basso di Tso e nelle strutture non viene praticata la contenzione, che si usa laddove il servizio pubblico non funziona come dovrebbe”.

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