Del contratto, ancora in via di lavorazione, tra Lega e Cinque stelle si è già detto tutto. La stretta sulla reazione penale è netta (e insensata) come ci si aspettava dalla prima (meno dal secondo). La sregolatezza da Far west che si vorrebbe introdurre con l’allargamento della legittima difesa – un tema che, con le sue esigenze di valutazione e bilanciamento, nella storia del pensiero giuridico è stato affrontato dalle migliori menti e che non andrebbe trattato con tanta superficialità – è stata commentata in lungo e in largo.

Mi limito dunque a notare tre punti.

Primo punto: si prevede di tornare indietro su ogni ampliamento nell’uso delle misure alternative alla detenzione che si è avuto negli scorsi anni. Si tratta di una parte del programma già segnata come definitiva. Su questo giornale si è di recente dato spazio a un ricercatore fortemente critico nei confronti di uno studio proveniente dall’Amministrazione penitenziaria che nel 2007 aveva sostenuto che le misure alternative comportano un netto abbassamento della recidiva.

Il ricercatore accusava i fautori delle misure alternative di non aver letto lo scritto in questione (che, si badi bene, è solo uno tra i tanti che arrivano al medesimo risultato). Tra gli argomenti riportati si dice che “uno studio serio che abbia l’obiettivo di misurare davvero il tasso di recidiva deve profilare anche un”gruppo di controllo”: cioè bisognava esaminare tutti i soggetti che hanno avuto il fine pena nel 1998, dividerli in due categorie (quelli che hanno avuto accesso alla misura alternativa e quelli che non l’hanno avuta) e vedere se tra i due insiemi, a settembre 2005, vi fosse un significativo scostamento circa l’incidenza della recidiva.

Solo allora si sarebbe potuto trarre delle conclusioni”. Mi chiedo se non sia lui a non aver letto il lavoro citato, che al paragrafo dal titolo “Un confronto con la recidiva dei detenuti” fa esattamente questo. Se si ha a cuore la sicurezza dei cittadini e se si adotta un approccio razionale e non esclusivamente emotivo alla questione, le misure alternative – che non sono affatto un’assenza di pena, ma comportano restrizione molto rigide sulla vita quotidiana di chi vi è sottoposto – sono da incentivare. Il programma di governo mette quindi a rischio la nostra sicurezza.

Secondo punto: il programma, anche qui in via già definitiva, sostiene che “occorre rivedere in senso restrittivo le norme che riguardano l’imputabilità, la determinazione e l’esecuzione della pena per il minorenne”. La giustizia penale minorile italiana, disegnata dal codice di procedura penale minorile del 1988, è guardata come un modello cui tendere dall’intera Europa. Il carcere è residuale: a fronte di quasi 14mila ragazzi in carico al sistema, sono poco più di 450 quelli reclusi. Ma questo, di nuovo, è efficace in termini di recidiva. Tra i ragazzi in messa alla prova, per fare un esempio particolarmente rilevante, la recidiva è bassissima. Non ci basta? Cosa vogliamo dalla nostra giustizia? Che ci difenda o che ci vendichi? E ci teniamo così tanto alla vendetta anche nei confronti di ragazzini, che potremmo recuperare alla collettività e instradare verso una vita onesta mantenendo l’approccio educativo che la giustizia minorile ha adottato con successo in Italia negli ultimi trent’anni?

Terzo punto: questa volta nel campo dell’immigrazione: nel programma si legge che “la valutazione dell’ammissibilità delle domande di protezione internazionale deve avvenire nei Paesi di origine o di transito, col supporto delle Agenzie europee, in strutture che garantiscano la piena tutela dei diritti umani”.

Le ultime parole, quelle relative ai diritti umani, sono segnate in rosso.

Qui non c’è una valutazione già definitiva. Come spiega la legenda, “le parti evidenziate in colore rosso necessitano di un vaglio politico primario”.

Ciascuno tragga le proprie conclusioni.

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