Secondo i dati appena pubblicati dall’Onu, dal 30 marzo sono 104 i palestinesi che sono stati uccisi durante le manifestazioni a ridosso della barriera che circonda e imprigiona la Striscia di Gaza. Di questi, dodici erano minori, bambini. Altri dodici, inclusi due bambini, sono stati uccisi in altre circostanze correlate. L’impressionante numero di feriti si aggira intorno a 12.600, di cui la metà ricoverati in ospedale, tra cui molti mutilati in gravissime condizioni. Tra questi, il numero di persone che ha subito amputazioni (specie di una gamba) o la perdita di un arto, o ferite alla testa o al torace, è ancora imprecisato ma dai bollettini medici emergono dati scioccanti. Gli ospedali di Gaza chiamano la popolazione ad accorrere per donare il sangue.

Sordi a ogni richiamo, a ogni legge di umanità, prima ancora che ad ogni principio fondamentale di diritto internazionale e regole sull’uso della forza, i militari israeliani hanno innalzato il livello di violenza fino a portarlo a livelli inimmaginabili. Solo nella scorsa giornata di lunedì, 15 maggio, 60 persone di cui 8 bambini sono stati uccisi e quasi tremila feriti, oltre la metà colpiti direttamente da proiettili sparati dai cecchini israeliani.

Altri 166 Palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati feriti in manifestazioni tenutesi in Cisgiordania in commemorazione della Nakba, esacerbate dalla incommentabile, irresponsabile e illegale decisione di Trump di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme.

Occorre ribadire chiaramente, di fronte a questi omicidi autorizzati ai massimi livelli, che in base al diritto internazionale l’uso della forza armata può essere giustificato solo per proteggere contro una minaccia letale o un grave pericolo imminente. Come invece documentato tra gli altri da Amnesty International – certamente non un’organizzazione che può essere considerata di parte in questo conflitto – “i militari israeliani hanno ucciso e mutilato manifestanti che non ponevano alcun pericolo per loro”.

Nel frattempo a causa del blocco imposto alla Striscia, Gaza è senza benzina, senza elettricità, senza acqua potabile, senza servizi di trattamento dei rifiuti, gli ospedali impossibilitati a lavorare, le scorte di emergenza quasi terminate. Nonostante tutto, il check point di Erez (che collega Gaza a Israele e dunque alla Cisgiordania e da lì alla Giordania e al resto del mondo) è rimasto ermeticamente chiuso. Rafah, il valico per l’Egitto, chiuso da mesi, è stato eccezionalmente aperto per i prossimi giorni e le autorità egiziane hanno permesso a 389 persone di lasciare Gaza per andare a curarsi, incluso (sembra ironico a scriversi) uno (su 12.600!) dei manifestanti feriti.

Osservo la crudeltà che va in scena a Gaza da lontano.

Sono qui all’Aia, in Olanda, da lunedì per partecipare all’annuale “Icc-Ngo roundtable” la tavola rotonda organizzata dalla Coalizione per la Corte penale internazionale che per una intera settimana mette a confronto e in dialogo le varie organizzazioni per i diritti umani con i funzionari della Corte penale internazionale, con la procuratrice in primis.

Quest’anno, ci sono circa 120 partecipanti tra gli esponenti delle Ong, internazionali e locali, dall’Uganda all’Afghanistan, da Amnesty International a Human Rights Watch. Io sono qui per conto del centro con cui collaboro a Berlino, Ecchr. Una piccola assemblea generale, variegata e colorata, informale ma molto composta e strutturata. Il nuovo edificio che ospita la Corte è davvero bello e imponente, comunica autorevolezza e serietà senza (troppo) intimidire.

Gaza è lontana, fisicamente migliaia di chilometri lontana, ma allo stesso tempo vicinissima. È inevitabile parlarne. L’attuale crisi non era tra le priorità all’ordine del giorno, fissato diverso tempo fa, ma non fa che riemergere. Riemerge negli interventi di organizzazioni come Amnesty International, nelle risposte della Procuratrice, nei discorsi a latere dei vari partecipanti. Le organizzazioni palestinesi purtroppo sono minimamente rappresentate.

I Gazani non possono muoversi e anche dalla Cisgiordania occupata il viaggio è davvero complicato. Al Haq ha un suo ufficio qui all’Aia e la giovane avvocatessa palestinese che rappresenta la più antica organizzazione per i diritti umani della Palestina è ammirevole per come riesce a gestire tanta pressione.

Il senso di sgomento è comune e condiviso. Lo sdegno enorme. La Corte sa di dovere fare la sua parte. La sensazione che la tanto attesa indagine sui crimini commessi in Palestina si avvicini è forte. Se sarà davvero così lo vedremo nei prossimi mesi. Le inimmaginabili pressioni politiche e i veti incrociati rendono talvolta il (de)corso della giustizia penale internazionale una penosa e lentissima camminata ad ostacoli. Ma siamo in molti ancora a crederci. E, del resto, quale sarebbe l’alternativa? Ancora violenza in risposta alla violenza? Come su piccola scala il diritto penale dovrebbe servire ad evitare la vendetta privata, su larga scala quello internazionale dovrebbe segnare il superamento dei conflitti (armati, dell’uso della forza militare. È un errore madornale continuare a fare sentire i Palestinesi indifesi, abbandonati a se stessi, quasi irrilevanti per gli organismi internazionali. L’attuale situazione non può che generare mostri. E su questo tutti dovremmo sentirci chiamati in causa.

Oggi Gaza si è fermata a piangere i suoi morti ed è stata una giornata relativamente tranquilla; tranquillissima anzi rispetto a quello che ci si attendeva nel giorno della commemorazione della Nakba, con decine di migliaia di manifestanti annunciati. Ma le manifestazioni andranno avanti.

Come mi scrive oggi Raji Sourani, il direttore del Palestinian centre for Human rights, da Gaza: “Siamo dalla parte giusta della Storia. Non abbandoneremo. Dignità e libertà sono troppo preziose per essere compromesse. Siamo le pietre della valle e nessuna forza o potere potrà portarci via da qui. Fino all’ultimo respiro noi resisteremo. Pace e amore da Gaza”.

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