di Francesco Desogus

Il giorno dopo, 10 maggio 1978, il preside convocò un’assemblea plenaria studenti e professori. Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro intaccò la mente di tutti, anche di un liceale come me appena maggiorenne e preoccupato per l’esame di maturità.

Noi figli del boom economico a cavallo tra gli anni 50 e 60, siamo cresciuti con i Lego e Calimero, Alighiero Noschese, la moviola di Bruno Pizzul Mike Bongiorno. Insomma, con dei ritmi quotidiani dettati anche dai programmi televisivi. Ritmi che vennero rotti, lasciandoti incollato davanti allo schermo, dalle edizioni straordinarie del telegiornale.

Mi ricordo ancora quella per la strage di Piazza Fontana, dicembre 1968. Avevo solo 9 anni. E diverse altre nel decennio successivo, praticamente della stessa natura. La nostra adolescenza non poteva che essere influenzata dalla spinta sessantottina, da un’Italia spaccata in due sul divorzio prima e sull’aborto poi. Soprattutto, da una nazione che mostrava tutta la sua debolezza davanti alla “lotta armata”, ai “sovversivi”, i “reazionari”. E poi tante sigle senza volti, da Lotta continua ai Nar, da Ordine nuovo ad Avanguardia operaia fino alle Brigate rosse. Occupazioni, assemblee permanenti e tanti spinelli in allegria. Altrove spaccavano vetrine, gambizzavano, sequestravano ed uccidevano. Indossare l’eskimo, il Loden verde o restare fascistello fighetto pronto a menare. Una generazione che forava la marmitta del Ciao per tirare di più, si faceva rapire da Porci con le ali o attendeva l’ultimo lp di Lucio Battisti. E poi c’era, purtroppo tanti, chi si rifugiava nell’eroina o lsd.

Quella mattina del 10 maggio 1978 prese la parola il mio professore di lettere. Don Leone, un gesuita, con la stessa giacca bluastra e croce dorata all’occhiello. Persona misurata e gentile. Non nascose mai le sue simpatie per il Pci, parlava da uomo di Dio, all’occorrenza da compagno. Ripeté le stesse parole dette poco meno di due mesi prima, nell’assemblea che si tenne il giorno dopo il sequestro e la strage di via Fani. Attaccò duramente le BR per gli assassinii, ma attaccò anche quella simpatia silente che una parte della popolazione italiana nutriva verso i gruppi armati (rossi o neri) visti come dei Robin Hood contro uno Stato tiranno, l’imperialismo delle multinazionali o il pericolo comunista. Non gli piaceva che un’intera generazione di studenti, senza capire davvero il senso della scelta, dovesse schierarsi politicamente e contrapporsi in maniera violenta. Che fosse il Movimento studentesco o Comunione liberazione o il Fronte della gioventù.

Di 55 giorni della prigionia di Moro ricordo la solitudine di Bettino Craxi per trattare con le BR, l’appello del Papa, il forte diniego di tutti gli altri, Enrico Berlinguer per primo. Molti erano convinti della liberazione perché il senso che lasciò la strage di via Fani si ridusse alle sole immagini dei tanti morti sull’asfalto. “Rivoluzionari” spietati. Cos’altro ancora per un “riconoscimento” della forza e dell’organizzazione della BR? E poi tutto quel sangue solo per liberare “dagli aguzzini i compagni in carcere”. Quindi per cambiare il Paese una nuova guerra civile?

Perdemmo tutti allora. Anche noi che in fin dei conti eravamo solo dei ragazzi presi da quel vortice animato da ogni tipo di estremismo, con l’illusione di una società migliore, di cui però non importava conoscere esattamente quale. La rabbia di Don Leone era rivolta anche verso se stesso, per una scuola ancora chiusa nella sua rigidità schematica formativa ed una generazione genitoriale probabilmente distratta da un pseudo benessere. Perché la gran parte degli italiani è fatta così: il giorno dopo già col pensiero rivolto ai mondiali di calcio dal primo giugno Argentina e la nazionale di Enzo Bearzot. Poi rinnovando il rito agostano anche di quel 1978: città deserte, file in autostrada, Figli delle Stelle alla radio ed infine il mare. Per lasciare così alle spalle, almeno per un mese, quell’Italia che non piacerà mai.

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