I fattorini di Foodora “non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa” e non erano “sottoposti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro”. Inoltre il Jobs Act ha ristretto l’ambito della subordinazione: i cococo non sono inclusi. Sono le motivazioni con cui il giudice Marco Buzano del tribunale di Torino spiega la sentenza 778/2018 con cui l’11 aprile ha respinto il ricorso di sei rider del gruppo che chiedevano il riconoscimento della natura subordinata del rapporto con l’azienda e contestavano di essere stati “sloggati” per aver protestato contro il passaggio al cottimo.

Il giudice esclude la subordinazione dei fattorini – assistiti dagli avvocati Sergio Bonetto e Giulia Druetta, che faranno appello – perché “il rapporto di lavoro intercorso tra le parti era caratterizzato dal fatto che i ricorrenti non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla“. “È pacifico – si legge nel dispositivo – che i ricorrenti potevano dare la propria disponibilità per uno dei turni indicati da Foodora, ma non erano obbligati a farlo; a sua volta Foodora poteva accettare la disponibilità data dai ricorrenti e inserirli nei turni da loro richiesti, ma poteva anche non farlo”. E questa caratteristica “può essere considerata di per sé – scrive il giudice – determinante ai fini di escludere la sottoposizione dei ricorrenti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro”.

A questo punto Buzano chiama in causa il Jobs Act: la riforma renziana, sottolinea, “forse nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto ampliare in qualche modo l’ambito della subordinazione, includendovi delle fattispecie fino ad allora rientranti nel generico campo della collaborazione continuativa. Ma così non è stato“. Il magistrato aggiunge che, così come è stata formulata, la norma ha “addirittura un ambito di applicazione più ristretto” di quanto prevede il codice civile. Al centro della questione c’era l’articolo 2 del Jobs Act, secondo il quale “si applica la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni esclusivamente personali“. I ricorrenti avevano invocato l’applicazione di questa norma, ma la difesa dell’azienda si è opposta e ha ottenuto ragione. Il giudice basa la conclusione sul modo in cui la legge è stata scritta: la disciplina del lavoro subordinato si applica “qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente anche (‘anche’ è sottolineato – ndr) con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Nel caso di Foodora, i rider non potevano avanzare questa rivendicazione perché “avevano la facoltà di stabilire se e quando dare la propria disponibilità ad essere inseriti nei turni di lavoro”.

Inoltre “i contratti sottoscritti dai ricorrenti (a differenza di quelli stipulati in epoca successiva in cui era stabilito un pagamento a consegna) prevedevano la corresponsione di un compenso orario (5,6 euro lordi l’ora): è quindi logico che i ricorrenti fossero tenuti a fare le consegne che venivano comunicate nelle ore per le quali ricevevano il compenso”. La sentenza aggiunge che i “nuovi strumenti di comunicazione” quali le “email, app” sono stati usati per la determinazione del luogo di lavoro, la verifica della presenza dei rider nei punti di partenza, le telefonate di sollecito della posizione finalizzate al rispetto dei tempi di consegna. Ma non per “il costante monitoraggio della prestazione”. Il giudice stabilisce inoltre che la esclusione dalla chat aziendale non può considerarsi sanzione disciplinare.

Il magistrato premette che nella controversia non sono state prese in esame “le questioni relative all’adeguatezza del compenso né tutte le altre complesse problematiche della gig economy, la cosiddetta “economia dei lavoretti”, che oltre alla consegna di pasti a domicilio comprende anche le piattaforme su cui si comprano e vendono a basso costo incarichi di traduzione, editing, grafica e simili.

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