La libertà di espressione apre varchi alla manifestazione del disaccordo. Pensarla diversamente è bello, ma non sempre viene apprezzato perché il confronto mette paura anche se è indispensabile per crescere e migliorare. Chi teme di progredire, o si preoccupa di doverlo fare per merito altrui, si sbriga a non accettare che – Vasco docet – “c’è chi dice no”.

E’ la triste storia di #senzadime, della gogna telematica, delle liste di proscrizione virtuale, dei monatti digitali che “taggano” presunti appestati.

Veder barcollare un ciclope della politica trafitto dai dardi degli sfavorevoli esiti elettorali impressiona anche i più disamorati dai balletti dei partiti. L’uso del web per additare i responsabili di non si sa cosa è l’ennesimo – speriamo ultimo – segno della perdita di equilibrio di un gigante fiaccato dalle troppe batoste alle urne.

Non spaventa la litigiosità che alligna sul web, ma incupisce che certe manifestazioni vadano a velare il già opaco orizzonte post-elettorale.

Discutibile la pubblicazione dei nomi, patetico il successivo subentro della dicitura “omissis” all’indicazione degli identificativi dei soggetti interessati: non è questione di privacy, ma forse di educazione, buon gusto e così a seguire nell’elenco di quelle banalità la cui somma fa il buon vivere quotidiano.

Intristito da quel che accade, mi vengono in mente le amare previsioni di un vecchio amico di papà.

Primavera del 1978, esame di maturità classica ormai vicino, “Gigi” (come chiamavo e non voleva esser chiamato mio babbo) mi porta a Vinchio, piccolo paesino di campagna nel cuore del Monferrato. Stavo redigendo una tesina su Beppe Fenoglio e secondo mio babbo le mie pur approfondite ricerche valevano meno della chiacchierata che mi stava per regalare. Il destinatario della nostra visita aveva appena ultimato un libro intitolato Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe e sicuramente poteva darmi qualche spunto. E così è stato.

Quella amabile conversazione mi diede l’opportunità di apprezzare un grande uomo e di riflettere su tante considerazioni che oggi si rivelano di estrema attualità. Quel pomeriggio con Davide Lajolo non l’ho mai cancellato e oggi – come i peperoni per chi ha problemi di digestione – “mi torna su”.

Il “mala tempora currunt” era ancora solo un latente presagio.

Lajolo, direttore de L’Unità per tanti anni e parlamentare comunista per tre legislature, era stato fascista e poi partigiano. Il “cambiamento di rotta” aveva ispirato il suo libro Il voltagabbana, il cui titolo è entrato nel vocabolario di uso comune.

Riteneva il cambiare idea e posizione una prova di maturità e di coscienza, quasi un percorso inevitabile che l’accumularsi di esperienza portava a seguire. Lui che aveva aspramente criticato Fenoglio per il suo I ventitré giorni della città di Alba, era arrivato a dedicare al conterraneo scrittore un omaggio “multimediale ante litteram” con una serie di lavori in radio, tv, articoli, libri.

Si cambia. L’importante è non rinnegare il passato, ma piuttosto ammettere errori, interpretazioni sbagliate, sviste, cantonate.

Se si cade, ci si rialza armati del coraggio che fa sopportare le critiche più aspre e induce a non arrendersi mai.

Ma l’opera di Davide Lajolo che maggiormente mi rimbomba tra mille pensieri è Il vizio assurdo. Se oggi tornasse tra noi – dopo aver scoperto che il palazzo di Botteghe Oscure, tempio dell’anti-capitalismo, è stato acquistato dall’Associazione Bancaria Italiana e a piano terra ospita un supermercato – indirizzerebbe diversamente il suo scritto.

La volontà di auto annientarsi, di darsi la morte a tutti i costi, non la attribuirebbe più al suo amico Cesare Pavese ma – con la medesima incredulità – sarebbe costretto a ricondurla alla compagine politica che non riuscirebbe a credere essere la sua discendenza. Fortunatamente in Paradiso la wi-fi non funziona, i talk show televisivi si vedono solo nei gironi infernali terreni, gli hashtag sono sconosciuti e il “Comandante Ulisse” riposa in pace.

Articolo Precedente

Libertà di stampa, l’Italia guadagna sei posti. A che serve se i cronisti vivono sotto minaccia?

next