Tommaso Besozzi, inviato de l’Europeo negli anni 50, avrebbe scritto: le uniche cose certe sono che i migranti continuano a imbarcarsi in Libia pagando gli scafisti e che continuano a naufragare o morire nel Mediterraneo. La cronaca è testarda e conferma questa certezza, in queste ore di ripresa dei flussi di barconi, di salvataggi, di sequestri. E dissequestri di navi umanitarie, tra Catania e Trapani, con le ong accusate di “intelligenza” con i trafficati di esseri umani. Gli ultimi naufraghi morti sono undici, bimbi e donne comprese, cinque giorni fa a poche miglia dalla Libia.

Mettere sotto inchiesta le ong e sigillare le loro navi non serve a cancellare queste certezze ed è contrario a tutte le convenzioni internazionali in materia di diritto umanitario, dalla dichiarazione dei diritti fondamentali dell’uomo in giù.

Bisognerà prendere atto che la “via giudiziaria”, intrapresa da circa un anno da alcune procure italiane (nuovamente “supplenti” di silenzi e scontri infuocati della politica), allo stop all’immigrazione sta miseramente fallendo e forse non è del tutto dentro la tradizione e la civiltà giuridica dell’Occidente. Perché i nostri sistemi riconoscono il diritto degli uomini, delle donne e dei bambini a vivere fuori dalla miserie e lontano da guerre e torture. E perché, come torna a raccontare la cronaca di queste ultime settimane, questo flusso non lo fermi con gli avvisi di garanzia, con i muri o i blocchi navali e nemmeno con i patti con la Libia, uno Stato che non esiste e da sette anni è nel caos.

Arrivano in queste ore, trasmesse via tweet e girate in go-pro una settantina di ore fa, dagli uomini della guardia costiera italiana. Un barcone, siamo a 30 miglia dalla costa di Sabrata, beccheggia, si capovolge lentamente, a pochi metri dai soccorritori. A bordo 63 persone, bimbi e donne. Una donna sta per annegare in questo preciso istante. Poi viene salvata.

Da alcuni mesi abbiamo dimenticato e rimosso queste facce e queste acque.

“Aiutiamoli a casa loro…”, ma senza avere volontà e stanziare fondi per farlo. E senza chiedere se questa gente, in fuga da torture e guerre, voglia restare a casa sua, in quelle circostanze. “Alziamo muri e mandiamo flotte militari per fermare questo flusso…”. Ma riecco queste persone, lì a nuotare o affogare, morire, sbarcare, nonostante muri, guardia costiera libica che spara e flotte militari di pattuglia armata.

Le inchieste giudiziarie aperte nel 2017 hanno costretto alcune ong (innocenti fino a prova contraria) a stare lontane dal loro luogo naturale di azione: in mare a salvare vite umane. E c’è da dire che finora – stando ai fatti e agli atti che conosciamo – in quelle inchieste sono emersi “pochi e poco fondati elementi di accusa” e “senza considerare le norme internazionali in tema di diritto umanitario” che obbligano le ong a salvare le vite di chi “non ha un posto sicuro” dove approdare. Lo ha scritto testualmente il gip di Ragusa nell’ordinanza del 16 aprile che ha disposto il dissequestro della nave Open Arms.

Perché l’unica cosa certa che può e deve fare una ong, magari con maggiori aiuto e sostegno da parete dell’Europa, è stare in mare a soccorrere persone. Msf, Save the Children e altre lo fanno da decenni, in varie parti del mondo.

Tutto il resto è politica, fino a prova contraria.

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