Non pensavo che lo avrei mai scritto, però lo scrivo: ha ragione Michele Serra. C’è grande fermento sui social per una delle sue “amache” apparsa su Repubblica (qui la replica di Serra alle polemiche). Serra prende spunto da un fatto di cronaca: un professore maltrattato da studenti bulli (e molto sboccati) in un istituto tecnico di Lucca. E ne trae considerazioni generali che a molti sono sembrate classiste: “Non è nei licei classici o scientifici, è negli istituti tecnici e nelle scuole professionali che la situazione è peggiore, e lo è per una ragione antica, per uno scandalo ancora intatto: il livello di educazione, di padronanza dei gesti e delle parole, di rispetto delle regole è direttamente proporzionale al ceto sociale di provenienza”.

Con un salto che pare spericolato che invece ha una sua logica, Serra poi analizza la “menzogna demagogica” del populismo. Che è la seguente: “Il populismo è prima di tutto un’ operazione consolatoria, perché evita di prendere coscienza della subalternità sociale e della debolezza culturale dei ceti popolari”.

Lascio agli psichiatri e agli esperti di pedagogia discutere se è fondata la conclusione a cui arriva Serra, cioè che la violenza e l’aggressività sono i modi in cui si maschera la debolezza e il senso di inferiorità. Serra però coglie un punto: l’altra faccia del mito della “gente”, dell’uomo della strada contrapposto all’élite, è la costruzione di rapporti di forza immaginari secondo i quali il popolo non è mai inferiore. Anzi, trasforma la propria ignoranza, la propria assenza di competenze in una prova di superiorità, perché l’istruzione corrompe, il successo è la prova di compromissione morale, la ricchezza è sempre costruita sul saccheggio della collettività.

Non è vero, i rapporti di forza non sono stati sovvertiti. L’Italia è un Paese con l’ascensore sociale bloccato, dove avere lo stesso tenore di vita dei genitori per molti è un sogno, pensare di migliorarlo una follia che conduce a frustrazione. Negare l’evidenza – cioè che i licei sono pieni di figli di ex studenti di liceo, che le università si reggono sui figli dei laureati – non la cambierà.

In un libro appena uscito, il direttore de Linkiesta, Francesco Cancellato, porta numeri e argomenti su cui riflettere. Dopo gli anni del boom, che finisce nel 1964, in Italia si afferma l’idea che tutti hanno diritto a una cultura che è tanto più nobile quanto più inutile (nel senso di priva di immediata utilità pratica). Scompare il principio secondo cui lo scopo dell’istruzione professionale è, appunto, insegnare una professione. “Non parliamo del paradiso perduto, sia chiaro, né tantomeno di un sistema replicabile oggi, ma di un sistema che tra mille difetti aveva un innegabile pregio, quello di permettere a un giovane, al netto del ciclo economico, di trovare lavoro nel più breve tempo possibile”, scrive Francesco Cancellato in “Né sfruttati né bamboccioni” (Egea).

Poi gli istituti tecnici diventano meno tecnici, per andare all’università non serve più un diploma di liceo, basta una maturità qualunque. Prima si persegue una democratizzazione della cultura che assomiglia un po’ al noto invito a mangiare brioche quando manca il pane: i ragazzi di buona famiglia restano i più capaci di scegliere l’università in modo saggio mentre chi viene da contesti più umili viene spesso abbagliato dal miraggio del “pezzo di carta” e si impantana in improbabili corsi di scienze della comunicazione o altre anticamere di una disoccupazione procrastinata. Poi arrivano gli anni del berlusconismo e si tenta di rendere la scuola più simile all’idea di impresa che hanno i politici (di destra), una spolverata di informatica, un accenno di inglese e via.

Bisogna tornare indietro? Assolutamente no. Ma dare a chi sceglie una formazione tecnica, competenze tecniche, utili è possibile, oltre che auspicabile. Esistono gli Istituti tecnici superiori (Its) che sono bienni specifici alternativi all’università utili a completare una formazione immediatamente spendibile. In Italia, ricorda Cancellato, esistono dal 2008, ce ne sono 90 e hanno diplomato ottomila studenti, l’80 per cento dei quali ha trovato lavoro a un anno dal titolo di studio. In Germania i diplomati dagli Fachhochschulen, la versione tedesca degli Its (che per sono vere università, a differenza degli Its), sono 900mila, pure la Francia si muove in quella direzione.

Tutto questo non per dire che la violenza dei ragazzi delle scuole professionali è giustificata, ma che Michele Serra coglie un punto quando osserva che il populismo si alimenta di una mancata comprensione dei rapporti di forza. Che c’è un abisso tra chi pascola in una scuola superiore nell’attesa di un diploma che ponga fine allo strazio e chi può competere nel mercato del lavoro e nella vita forte di un’adolescenza in una famiglia che lo ha mandato in Inghilterra a studiare inglese, in un liceo pieno di figli di laureati e poi lo ha indirizzato verso un’università difficile ma utile.

Però questi discorsi sono inutili. Nel senso che, come ha dimostrato la sociologa americana Arlie Hochschild, ci sono americani che vivono di sussidi pubblici pronti a votare chi li vuole abolire, vittime dell’inquinamento di fabbriche tossiche che si oppongono alle legislazioni ambientali, persone che mai potrebbero pagare un intervento in ospedale ostili alla sanità pubblica. I populismi si alimentano di narrazioni non razionali, che negano la consequenzialità e – come osserva Michele Serra – i rapporti di forza.

C’è soltanto un punto sbagliato nell’analisi del commentatore di Repubblica: è vero, “il popolo è più debole della borghesia”, ma adesso i partiti che rappresentano quel “popolo” hanno ma maggioranza. Le élite continuano a prosperare ma sono sotto assedio, gli arrabbiati usano il voto come il ragazzo di Lucca il casco da motociclista: uno strumento che nasconde l’identità del singolo, protegge ma diventa anche arma d’attacco.

Non funzionerà. La violenza momentanea di un bullo non ribalta i rapporti di forza con l’insegnante: uno resta destinato nel migliore dei casi ad arrabattarsi tra lavoretti e problemi con la legge, l’altro rimane un dipendente pubblico con lo stipendio sicuro e il potere di bocciatura. Così, in politica, negare l’importanza delle competenze, i limiti della finanza pubblica, le logiche della globalizzazione non basta a costruire un mondo nuovo o a ridurre la disuguaglianza.

E’ appena uscito il nuovo libro di Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano: “Populismo sovrano” per la collana Le Vele di Einaudi

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