Aveva 14 anni e prima di uscire di casa per l’ultima volta si era fatto cucire la pagella nell’imbottitura del giubbotto. I voti presi a scuola potevano servire per mostrare quello che valeva, una volta giunto in Europa. Quando era partito dal Mali aveva un volto, una identità data dalla fisionomia: la forma della bocca e delle orecchie, la curvatura del naso, la dimensione della fronte, l’increspatura dei capelli. Dopo un anno passato a 370 metri di profondità, non restava più molto: i suoi tratti se li era mangiati il mare, insieme a buona parte del resto. Quel poco che rimaneva di lui oggi riposa in un cimitero in Sicilia, ma qualcuno prova ancora a dare un nome e un cognome sicuri a lui e ai suoi compagni, perché chi è rimasto a casa sappia. Perché in Somalia, in Niger o in Eritrea si metta il cuore in pace chi ancora aspetta notizie dei quasi mille migranti che la notte del 18 aprile 2015 sprofondarono tra le onde a bordo di un peschereccio egiziano nel più grande naufragio civile avvenuto nel Mediterraneo nel dopoguerra.

Tre anni dopo, di loro nei palazzi delle istituzioni non parla quasi più nessuno. Eppure in quelle ore la politica si batteva il petto: “Venti anni fa abbiamo chiuso gli occhi davanti a Srebrenica – diceva il 20 aprile Matteo Renzi, mentre le informazioni arrivavano col contagocce da quel fazzoletto di Canale di Sicilia in cui la paranza carica di uomini si era inabissata – oggi non possiamo ricordarci di certi eventi solo per le commemorazioni”. Parlava di “responsabilità verso la Storia”, il premier, che stanziava i soldi per recuperare il relitto e il 14 ottobre 2016 alla Fao proponeva che fosse “messo davanti alla sede delle istituzioni europee a Bruxelles” per costringere l’Europa ad aprire gli occhi su ciò che accadeva nel Mediterraneo. Poi la sconfitta nel referendum e quello dei migranti diventava un tabù. “Aiutiamoli a casa loro“, era diventata la ricetta renziana in vista delle elezioni. E mentre la Lega dava fondo a tutto il suo arsenale retorico alimentando la narrazione sull'”emergenza” migranti tra il silenzio del Pd e l’ambiguità del M5s, la storia del barcone e dei suoi naufraghi precipitava nell’oblio.

Oggi, si cerca di dimenticare. La Presidenza del Consiglio, che ha supervisionato l’operazione, si rifiuta persino di fornire dati ufficiali sui soldi spesi per riportare a terra il barcone: nonostante quattro email e altrettante telefonate, Palazzo Chigi non ha mai risposto alla richiesta de IlFattoQuotidiano.it di confermare e aggiornare la cifra di 9,5 milioni fornita il 30 giugno 2016 dal contrammiraglio Pietro Covino della Marina Militare. Tutto ciò che resta dei morti sono reperti biologici e qualche oggetto conservati negli archivi del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Milano: telefonini, vestiti, documenti quando va bene. E schede: numeri e descrizioni di quel poco che il mare non ha consumato. Resta ancora difficile persino capire quante persone viaggiassero sul peschereccio.

“Abbiamo individuato con certezza almeno 600 persone – racconta in sala riunioni Cristina Cattaneo, responsabile del Labanof, che dal settembre 2016 lavora al riconoscimento dei corpi – ma abbiamo trovato tanti altri resti, tra cui moltissimi crani, su cui dovremo fare la genetica e che ci fanno ritenere che su quella barca ci fossero fino a mille persone“. Un numero spaventoso, superiore alle stime emerse finora, che collima con le testimonianze dei 28 sopravvissuti: “Alcuni di loro hanno raccontato che per caricare il peschereccio erano stati necessari 10 viaggi di un gommone, che per ogni viaggio trasportava circa 100 persone”. Uno di questi trasbordi dalla riva, riportano le testimonianze, era carico di donne e bambini: “Noi non li abbiamo trovati, tra i resti abbiamo solo il cranio di un bimbo di circa 7 anni. Nessuna donna finora, non sappiamo ancora il perché”.

Erano partiti di notte da un porto vicino a Zwara, a ovest di Tripoli, in Libia. Quando alcune ore più tardi la balena aveva cominciato a inabissarsi in un mugghiare di metallo dopo aver urtato per una manovra sbagliata il mercantile portoghese che la Capitaneria di porto di Roma aveva inviato a soccorrerla, quelli rinchiusi nella stiva si erano ammassati gli uni sugli altri, arrampicandosi su quelli che avevano davanti e di fianco per cercare di raggiungere la botola, lassù in alto. In due si erano abbracciati in quell’inferno che era la sala macchine. “Lì dentro si sviluppa un calore tale che neanche il macchinista ci mette spesso piede”, raccontano i Vigili del fuoco che li avevano tirati fuori, un anno dopo. Persino in mezzo ai motori avevano ammassato 65 persone. I mercanti li avevano stipati in ogni interstizio, mille persone pigiate come bestie in 23 metri di barca, e li avevano spediti nel Mediterraneo con due litri d’acqua a testa e senza uno straccio di ancora perché anche il gavone di prua doveva servire per farcene entrare ancora, per aumentare il guadagno. Erano riusciti a metterne 5 per ogni metro quadro.

“Erano in maggioranza adolescenti e giovanissimi uomini, tra i 13 e 25 anni”, ricorda la Cattaneo, che raccogliendo quelli che nei laboratori del Labanof si chiamano dati post mortem, si è imbattuta in storie piccole, cristallizzate nell’arco di quei 4 minuti in cui il peschereccio colava a picco con il suo carico di disperazione. “Tra i primi corpi recuperati c’era quello di un ragazzo pieno di tatuaggi monocromatici, come se ne vedono addosso ai nostri ragazzi, e in tasca aveva una sacchettina di plastica contenente terra. Era eritreo, spesso quando partono loro si portano dietro la terra della loro patria“. La sua era tra le 169 salme recuperate per prime, fino al 14 dicembre 2015: erano i corpi che si erano posati tutto attorno al relitto, disseminati in un’area di 1,8 milioni di metri quadri mentre quest’ultimo si adagiava lentamente sul fondale. Un altro, “un ivoriano di 18 anni, aveva 5 documenti diversi in tasca: una carta d’identità, il passaporto, una scheda della biblioteca dell’università o della scuola, una tessera sportiva e quella da donatore di sangue. Quel ragazzo era come uno dei nostri – prosegue la Cattaneo – nelle tasche di queste persone abbiamo trovato oggetti che trovi anche nelle tasche dei morti nostri”.

Per strappare al mare gli altri naufraghi era stato necessario un altro anno. Erano rimasti lì, sul fondo a 77 miglia dalla Libia, a 112 da Malta e a 131 da Lampedusa, fino al 30 giugno 2016, giorno in cui la nave Ievoli Ivory, appoggiata dalla San Giorgio della Marina Militare, era giunta nella rada di Augusta con il relitto tirato a secco sul ponte. A luglio i Vigili del fuoco avevano aperto uno squarcio nella stiva per recuperarli. “Man mano che i cadaveri sono stati individuati, i corpi sono stati sepolti – racconta Vittorio Piscitelli, commissario straordinario per la gestione del fenomeno delle persone scomparse, che fino al 14 febbraio ha coordinato le operazioni per il riconoscimento tra l’Italia e l’Africa subsahariana – a oggi sono 528, gli altri sono ancora in fase di distinzione”. I resti di chi attende ancora un nome si trovano nelle body bag riempite dai pompieri: “In queste sacche sono stati raccolti resti di corpi confusi tra loro: in alcuni casi le sacche contenevano resti appartenenti a corpi diversi, durante le operazione di recupero si erano mescolate. Ora il team della Cattaneo sta cercando di ricostruire i singoli cadaveri per poi fare il raffronto con i materiali che arrivano dai Paesi d’origine”.

Per i risultati serve tempo. “Ci sono difficoltà tecniche evidenti – racconta la Cattaneo – hai gente che muore e finisce in Paesi diversi e spesso sotto la giurisdizione di procure diverse. Non c’è un collettore unico che possa contenere i dati post mortem delle vittime di queste tragedie che vanno avanti almeno da 10 anni. Le informazioni relative a queste vittime sono disperse in varie parti d’Italia e d’Europa perché le vittime di un disastro che avviene vicino a Lampedusa possono finire in Italia come a Malta”. Manca ancora quel registro europeo di cui parla da anni il Comitato 3 Ottobre, nato dopo la tragedia in cui Lampedusa nel 2013 morirono 383 migranti, in maggioranza eritrei. In più c’è il problema di reperire il materiale ante mortem: non è facile andare nei Paesi dell’Africa sub sahariana, neanche in quelli più stabili, a chiedere ai parenti fotografie ed effetti personali delle vittime.

“Ed è qui la grande trovata di Piscitelli – prosegue la prof – il prefetto ha stilato un protocollo con Croce Rossa Italiana, Croce Rossa Internazionale e ministero degli Esteri per raccogliere i dati nei Paesi d’origine”. Da qualche mese le organizzazioni vanno in strada con banchetti e gazebo in Sudan, Somalia, Mali, Gambia, Etiopia, Senegal, Costa d’Avorio, Eritrea, Mauritania e Guinea Bissau e chiedono “ai parenti di farci avere delle immagini da vivo dello scomparso in cui il volto sia ben in vista, si veda ad esempio un bel sorriso che metta in mostra i denti – spiega l’ex commissario – chiediamo loro se il congiunto aveva una protesi, aveva subito particolari interventi chirurgici o se hanno in casa radiografie. Tutti elementi che gli odontologi e gli anatomopatologi del Labanof confrontano con le schede post mortem compilate in base ai resti rinvenuti sul barcone”. Sono 160 i moduli ante mortem arrivati al Labanof: “Finora abbiamo avuto tra i 3 e i 5 sospetti di riconoscimento – prosegue Piscitelli – ma non sono ancora completi, perché serviranno i campioni biologici per il confronto del Dna, necessario perché un’identità sia identificata con certezza”. “Spero che tra qualche mese avremo i primi risultati definitivi – precisa la Cattaneo – se riusciremo, vorrà dire che il sistema funziona”. A costi bassi, che si prevedono “attorno ai 150-200mila euro, materiali compresi, per dare un nome a tutte le vittime”.

“L’identificazione la si fa per i vivi, per tutelare il loro diritto a sapere che fine ha fatto un loro caro – racconta ancora la professoressa – la si fa per le vedove che sono immobilizzate in un limbo che, specie in alcune culture, non permette loro di riprendere a vivere. Lo si fa per gli orfani che senza i documenti e i certificati di morti di padre e madre non possono essere adottati o per fare il ricongiungimento con i parenti in Europa”. Diritti dinanzi ai quali l’Italia e l’Europa per anni sono state completamente sorde: “Questo barcone è solo la punta dell’iceberg di una serie di piccole e grandi catastrofi, molte delle quali avvengono in silenzio“. Un numero elevatissimo di morti – 15mila solo tra i 2014 e il 2017 – di cui non si è occupato nessuno, in barba a qualsiasi legge e convenzione che obbliga a identificare e dare degna sepoltura ai morti: “Questi sono morti di categoria B – prosegue la Cattaneo – se in Europa cade un aereo, partono esperti da tutti i Paesi che hanno vittime. Per questi morti non si muove nessuno, perché non sono morti nostri. Sono morti di nessuno“.

Perché l’Europa si accorga di loro, ora si tenta di portare a Milano il peschereccio. Il relitto non si è mosso dalla base Nato di Melilli in cui era stato portato dopo il recupero. A dicembre Lia Quartapelle, già capogruppo del Partito Democratico in Commissione Esteri alla Camera, è riuscita a fare approvare un emendamento alla legge di Bilancio per finanziarne lo spostamento: 600mila euro per portare il barcone a Città Studi, sistemandolo in un’installazione in via Golgi. Sfidando i comitati e lo stesso Pd di Augusta che da mesi si battono per tenerlo in Sicilia. Al ministero della Difesa un gruppo di lavoro formato da esperti di Marina, Esercito e università sta studiando il trasporto: “Probabilmente via mare fino a Ravenna, Chioggia o Porto Marghera – spiegano fonti di via XX Settembre – poi via terra su un tir”. Ma non è escluso che il relitto possa essere imbarcato sul Po fino a Cremona e poi portato a destinazione su gomma. La corsa contro il tempo è iniziata: “Le operazioni devono terminare entro l’anno, pena la perdita dei fondi – spiegano ancora dal ministero – noi puntiamo a finire entro l’estate”. La macchina è avviata: “A questo punto solo una decisione politica potrebbe incepparla”.

(Foto della Marina Militare)

@marco_pasciuti

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