Secondo la Cnbc ogni Tomahawk – non l’accetta dei nativi americani e neppure il braciolone (l’arma da tavola contro i vegetariani) ma il missile da crociera usato dagli Usa negli ultimi conflitti – costa 1,4 milioni di dollari. Nel 2017, lanciarne 59 contro la Siria costò circa 80 milioni di dollari, soltanto in materiale di consumo. Nell’ultimo attacco, venerdì scorso, ne sono stati lanciati 118, bruciando in poche ore 165 milioni di dollari sui cieli e le terre siriane, se i costi degli aerei sono rimasti invariati rispetto al 2017. Nessuno ha tuttora valutato il costo vivo dell’attacco (al netto delle spese fisse di armamento e personale) ma si può pensare a qualcosa come mezzo miliardo di dollari per muovere tutta quella ferraglia high-tech nel Mediterraneo sud-orientale.

Tra le domande della gente fa perciò capolino un quesito un po’ gretto: “Ma quanto ci costi?” Non è una domanda nuova, se già nel 62 a.C. alcuni senatori (tra cui Catilina) si lamentavano per i quattro milioni e trecentomila sesterzi che Pompeo aveva ottenuto per pattugliare il mare nostrum contro i pirati. Ma è una domanda al passo coi tempi, poiché il rapporto tra costi e benefici regola ogni espressione della vita contemporanea.

“Tra tutti i nemici della libertà, la guerra è, forse, il più temibile, perché comprende e sviluppa il germe di ogni altro nemico. La guerra è il genitore degli eserciti, da cui scaturiscono debiti e tasse […] strumenti conosciuti per assoggettare i molti sotto il dominio di pochi […] Nessuna nazione potrebbe preservare la propria libertà nel mezzo di una guerra continua”. Così affermava James Madison, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, nelle sue Osservazioni politiche del 20 aprile 1795. Parlava di libertà, ma con un occhio di riguardo ai debiti e alle tasse. E, al tempo, la sua lezione fu ascoltata e praticata.

Se all’inizio dell’Ottocento la spesa pubblica degli Stati Uniti nel capitolo “guerra” era affatto trascurabile, durante la Guerra civile salì di colpo al 12% del Pil, al netto della spesa dei secessionisti. Poi crollò rapidamente e rimase irrisoria fino alla Prima guerra mondiale, salendo di brutto al 22% nel 1917 (vedi Fig.1).

Non superò mai il 2% tra le due guerre mondiali, ma schizzò al 41% nel corso della Seconda. Poi di nuovo al 15% durante la Guerra di Corea, scendendo lentamente fino a un nuovo picco del 10% ai tempi del Vietnam. Dopo il 1968, questo capitolo di spesa – etichettato in modo definitivo come “difesa” in ossequio alla modernità – non superò più quella soglia, con un picco del 5,7% nel 2010, durante il conflitto in Iraq. Scesa lentamente nel secondo mandato del presidente Barack Obama, la spesa ha ripreso ad aumentare con la nuova amministrazione.

Come illustra un sito governativo – con una chiarezza da invidia – la spesa federale degli Stati Uniti salirà da tremila 980 miliardi di dollari del 2017 a 4.170 nel 2018, 870 dei quali dedicati al capitolo “difesa”, che salirà a 951 nel successivo 2019. Più o meno, un esborso pari a quello di 13 nazioni (Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Giappone, India, Arabia Saudita, Germania, Brasile, Italia, Corea del Sud, Australia e Canada in ordine decrescente di spesa) secondo vecchi calcoli della Pete G. Peterson foundation, pubblicati da Brad Plumer sul Washington Post il 7 gennaio 2013 ma tuttora verosimili. Tutte assieme, naturalmente.

Se, come pare, non ci sono state vittime e i danni dell’attacco della notte tra venerdì 13 e sabato 14 aprile sono stati modesti – in tutto, sono stati “cancellati” un centro di ricerca, un posto di comando e depositi di stoccaggio – abbiamo assistito ai fuochi d’artificio più costosi del millennio.

Nel frattempo, i contribuenti inglesi e francesi cercano di capire perché i propri governi abbiano robustamente contribuito allo spettacolo, mentre quelli americani cercano di farsi una ragione del taglio al finanziamento federale alla ricerca sul cancro, tuttora inferiore a quello del 2008. Un taglio confrontabile al costo dell’attacco del 7 aprile. E se si può cercare di indovinare i costi, almeno a spanne, ben più arduo è capire i benefici dell’azione militare – diretti e indiretti, presenti ed eventualmente futuri.

Per rispondere si potrebbe resuscitare un’antica espressione romana: “Cui bono?” ossia “Chi ne beneficia?“. Il congiurato Catilina fu ammazzato quello stesso anno nell’agro pistoiese. Ma chi oggi si fa questa domanda non corre alcun pericolo. Anche perché, finora, non troverà risposte, ma soltanto elementi contraddittori.

Il prezzo del petrolio cresce ai massimi livelli dal 2014, ma i cinque maggiori produttori sono equamente distribuiti sulle due sponde: due per parte con l’Iraq nel mezzo. Qualche migliaio di residui combattenti dell’Isis vagano nella valle dell’Eufrate orientale, pronti a rientrare in gioco ma tuttora emarginati. Sulla faccia dell’Europa unita si stampa un ulteriore sganassone, come se ce ne fosse ancora bisogno. Invero, le azioni della Raytheon – la compagnia che, tra l’altro, fabbrica i Tomahawk – sono salite negli ultimi cinque anni da 57 a più di 200 dollari l’una. Un aumento di quasi il 250%, mentre l’indice borsistico (il Dow Jones) è cresciuto del 70% circa, da 14mila 547 a 24mila 360. Ieri quotavano circa 222 dollari e ne ho preso nota, caso mai avessi qualche investimento da fare.

E sul futuro pesa l’ipocrisia di un’affermazione in stile hollywoodiano: “Mission accomplished!”. Come ha scritto Robin Wright sul New Yorker, è una frase a effetto, tecnicamente ineccepibile ma politicamente insignificante, il suggello di un’azione del tutto estranea a una strategia a lungo termine. E, paradossalmente, la “missione compiuta” annunciata da Donald Trump potrebbe anche risolversi in un’ulteriore confessione d’impotenza da parte delle nazioni occidentali davanti ai misteri mesopotamici. Se non un tremendo errore, come quello ammesso da Tony Blair in merito alla guerra in Iraq.

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