Con un laurea di ingegneria, da 11 anni vive in mezzo ai poveri di San Paolo del Brasile. Marco Vitale, cremonese, ha 45 anni e la sua vita prima di dedicarsi agli ultimi era questa: “Matematica 1, Matematica 2, Fisica 1, Fisica 2, Chimica”. Esame, voto, esame, voto. Dopo ogni voto buono i complimenti, poi ricominciava lo studio per l’esame successivo. E “il lunedì mattina con il corpo assonnato e il venerdì sera l’happy hour”. Allo stesso tempo, però, Marco cominciava a conoscere il mondo, con le sue bellezze e i suoi drammi: le ingiustizie, la fame, la disuguaglianza, la corruzione. “Ricordo i tempi di Tangentopoli con la voglia di pulizia e la reazione della gente con il dito puntato contro quel politico o quel partito – racconta -. Lo facevo anche io: per ogni problema semplicemente avevo trovato dei colpevoli”. E poi Capaci e Borsellino. L’indignazione per le stragi era tanta, “la rabbia era forte”, ma Marco doveva prima finire gli studi. E poi trovare un lavoro: lo ottiene a Torino, nel ramo delle telecomunicazioni. Qui arriva la svolta: inizia a frequentare i Saveriani di Cremona.

Vedevo in loro una vita commovente, fantastica. Io volevo vivere così: al massimo

“Tramite loro ho conosciuto un gruppo di ragazzi che a Torino ripuliva dalle macerie un arsenale di guerra abbandonato per trasformarlo in un Arsenale della Pace”. Una casa per chi non ha pace, per chi scappa da guerre. Marco diventa così missionario del Sermig di Ernesto Olivero. “Mi sono commosso nel vedere giovani e famiglie che si davano i cambi per mantenere la porta di quella ex-fabbrica aperta 24 ore al giorno. Vedevo in loro una vita commovente, fantastica. Io volevo vivere così: al massimo”. Marco si rende conto che il suo bilancio personale non era poi così diverso da quello di quel politico che tanto criticava. “Mi sono guardato allo specchio e ho preso la decisione di vivere il sogno che mi portavo dentro”.

Così ha iniziato a preparare le spedizioni di aiuti umanitari che partono dall’Arsenale. La sera, nel silenzio della fabbrica, nel momento della preghiera. “Il mercoledì notte era il mio turno. Il mattino dopo facevo una doccia e andavo in ufficio: la sensazione era di vivere qualcosa di importante”. Quindi lascia l’azienda e si getta anima e cuore nell’Arsenale di Torino. Oggi la sua vita è dedicata ad un altro Arsenale: a San Paolo, dall’altra parte dell’Atlantico. “Vivo non solo per ciò che interessa a me e che voglio, ma per ciò di cui c’è bisogno”.

Qui facciamo del bene fatto bene

L’Arsenale in cui vive da 11 anni, in una città di 20 milioni di abitanti e piena di contraddizioni, tra picchi di enormi ricchezze e abissi di povertà, è diventato una casa che accoglie 1.200 persone ogni giorno. “Abbiamo ristrutturato un grande caseggiato che in passato era usato come hospedaria dos imigrantes”. Milleduecento posti letto con altrettanti armadi, pulizia e pasti caldi di qualità. Poi ci sono i corsi professionali: panettiere, pasticciere, muratore, piastrellista, la scuola per imparare a leggere e a scrivere, una biblioteca, il centro medico, la sala di arte. Le persone che bussano a quella porta possiedono solo quello che indossano e sono vittime di alcol w droga.

“Il crack sta piegando la vita di molti. Interi quartieri stanno diventando zone dove vagano centinaia di persone alla disperata ricerca di una dose. Sempre più spesso sono giovani”. Lo sforzo di Marco contribuisce a risvegliare una scintilla di speranza nel cuore di quella gente. “La rendiamo importante. Facciamo del bene fatto bene”. Tutti si aiutano, laggiù. “Proponiamo ai più poveri di aiutare chi ha bisogno. Perché sei vuoi essere felice, devi fare felice gli altri”. E lo puoi fare ovunque, secondo Marco: in Italia o in Brasile non cambia nulla. “Quando mi hanno proposto di trasferirmi in Brasile sono partito senza sapere una parola di portoghese. Eppure Ernesto continuava a ripetermi: ‘Non preoccuparti della lingua, preoccupati solo di diventare buono. Perché i buoni non sono stranieri in nessuna terra’”.

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“Sono nata e cresciuta a Roma, ma solo qui in Costa d’Avorio mi sento accettata. Italia chiusa alla diversità”

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