L’università italiana, tutta in inglese: il Politecnico di Milano ci prova, i giudici lo stoppano, il ministero dell’Istruzione si barcamena in maniera un po’ incerta e le opinioni si dividono. Per i promotori è l’unica maniera di andare incontro a un futuro sempre più globalizzato e spalancare le porte del mondo del lavoro agli studenti. Per i contrari, una scelta troppo radicale che svilisce la nostra cultura. Nemmeno le sentenze dei giudici sembrano in grado di chiudere il dibattito.

LA RIVOLUZIONE DEL 2012, LE SENTENZE, L’APPELLO DEGLI EX STUDENTI – Per ricostruire la vicenda bisogna tornare indietro al 2012, quando il Politecnico aveva deciso di trasformare tutti i suoi corsi di laurea magistrale e dottorato in lingua straniera. Il ricorso di alcuni docenti contrari era stato subito accolto dal Tar, e l’ateneo aveva cambiato strategia: la conversione spontanea di singoli corsi che volevano passare all’inglese, senza una decisione a livello centrale. Così si è arrivati alla situazione attuale, che vede nella specialistica 27 corsi in inglese e 8 in italiano. Ora, però, è arrivato un ulteriore pronunciamento del Consiglio di Stato, che chiede di non sacrificare l’italiano e imporrà probabilmente un riequilibrio fra le due lingue. La palla passa al Ministero dell’Istruzione: in passato il Miur aveva sempre approvato i piani di studio del Politecnico senza obiettare nulla (anzi, gli ex ministri Profumo e Carrozza si erano schierati apertamente a favore). Dopo la sentenza la ministra Fedeli ha fatto dietrofront, annunciando un cambio d’indirizzo: per l’anno prossimo comunque l’offerta formativa resterà invariata (era già stata approvata e non ci sono i tempi tecnici per modificarla), se ne parlerà per l’anno accademico 2019/2020.

In attesa di capire le intenzioni del Ministero, l’ultimo capitolo lo ha scritto l’advisory board del Politecnico, comprando una pagina del Corriere della Sera per pubblicare un appello a sostegno dell’insegnamento in inglese: alcuni fra gli ex studenti più illustri, dal senatore a vita Renzo Piano all’ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, hanno firmato un “messaggio-manifesto” che rilancia l’iniziativa. “L’ingegneria, l’architettura e il design sono parte del Made in Italy che può e deve competere sui mercati internazionali. Per questo la conoscenza della lingua inglese diventa essenziale e garantisce il diritto al lavoro”. La storia, evidentemente, non è ancora finita.

IL RETTORE RESTA: “DOBBIAMO GUARDARE AL FUTURO” – Il rettore del Politecnico, Ferruccio Resta, crede ancora nell’iniziativa lanciata dal suo predecessore: “La partita della conversione integrale all’inglese ormai è persa, ma noi vogliamo salvaguardare almeno la libertà delle singole facoltà e la situazione attuale, che tanti buoni risultati ha portato negli ultimi anni”. C’è il rischio, infatti, che la sentenza obblighi l’ateneo a sdoppiare i corsi previsti solo in inglese, con una versione anche italiana: “Innanzitutto sarebbe un problema a livello economico, perché si moltiplicherebbero i costi, ma io ne faccio una questione soprattutto culturale: noi vogliamo creare una comunità, e per farlo ci vuole una lingua comune che oggi nel mondo è solo l’inglese. Dobbiamo unire, non dividere”. E la nostra, di lingua? “Nessuno vuole rinunciarci: i primi tre anni sono in italiano, resteranno tali. E gli studenti lo parleranno fra di loro. Dobbiamo decidere se proteggerla chiudendola nei nostri confini, in una popolazione in continuo calo demografico, o se provare a portarla fuori, aprendoci all’estero e al futuro”.

L’ACCADEMIA DELLA CRUSCA: “NON C’È UN’UNICA STRADA” – Si è sempre battuta contro l’iniziativa, invece, l’Accademia della Crusca, che ancora non abbassa la guardia. “Non vorrei che quest’appello fosse una richiesta implicita al prossimo governo, per fare degli interventi normativi nella direzione pretesa dal Politecnico”, attacca Claudio Marazzini. “L’abolizione sistematica dell’italiano non rientra in una logica didattica, ma in un meccanismo burocratico premiale per ottenere maggiori finanziamenti dal ministero. Se per ingegneria e design può avere anche un senso, lo stesso non si può dire per l’architettura, dove l’80% dei prodotti di ricerca sono ancora in italiano: per leggere le “Vite” del Vasari non si potrà mai rinunciare all’italiano”. Il prestigioso istituto con sede a Firenze, custode della lingua italiana, non poteva che essere contrario al progetto, contestato nel merito e nella forma: “Immaginate i danni che avrebbe il tessuto sociale del nostro Paese, di cui l’idioma è componente fondamentale. La cultura è un patrimonio di diversità, qui l’errore più grande è voler far credere che ci sia un’unica strada. E un’unica lingua”, conclude il presidente Marazzini.

L’ARCHITETTO BECCU: “SERVE EQUILIBRIO” – A metà fra le due posizioni (ma probabilmente più vicino a quella dell’Accademia e dei tribunali), Michele Beccu, architetto dello studio Abdr (considerato uno dei 50 Top studi italiani, autore tra gli altri del progetto della Stazione Tiburtina a Roma e del Teatro dell’Opera a Firenze), nonché professore associato all’Università di Roma Tre. “Io sono favorevole all’inglese, ma favorevolissimo all’italiano”, spiega. “Per età e formazione giovanile purtroppo non parlo l’inglese in maniera sufficiente, e me ne rammarico. Per le nuove generazioni conoscere le lingue è fondamentale, ma non è tutto: nel nostro studio guardiamo innanzitutto al valore, prendiamo tanti ragazzi bilingue, ma anche qualcuno che magari fa un po’ fatica con l’inglese e ha altre qualità”.  Per Beccu, insomma, gli atenei e in primis il Politecnico, centro d’eccellenza dell’università italiana, dovrebbero trovare un compromesso fra innovazione e tradizione: “Non c’è dubbio che la comunità scientifica internazionale sia l’inglese. Va benissimo, purché non si rinunci del tutto alla nostra lingua. Per me la soluzione è la reciprocità tra le due lingue, all’interno dello stesso corso. L’obiettivo – conclude – è essere bilingue come fanno all’estero, non dimenticare la propria cultura”. E il dibattito continua.

Twitter @lVendemiale

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