Il motivo principale per cui un personaggio del calibro di Kurt Cobain manca alla musica odierna risiede nel fatto (ahimè) che nessuno dopo di lui sia riuscito a esprimere – in forma canzone e con risultati anche solo paragonabili – il male di vivere, coniugando il tutto con una consapevolezza melodica e un pragmatismo innati quanto accidentali.

Se pensiamo che dai Nirvana (seppur indirettamente) deriva la solarità fittizia del fenomeno Foo Fighters, capiamo bene non solo com’è che al giorno d’oggi le masse inquadrano il rock ma ancor prima quale sia lo stato dell’arte di un genere nato per rivoltare lo status quo e non certo per incrociarne il favore. Tutto lecito, sia chiaro: ma la storia che stiamo raccontando è un’altra.

Che Kurt Cobain e i Nirvana abbiano assolto anche alla funzione di pulire dai peccati le major e le televisioni musicali è storia altrettanto nota: così come non deve stupire il fatto che lo stesso cantante premesse per veder passati i video dei suoi singoli e fosse molto attento a ciò che critici e giornalisti scrivevano di lui e dei suoi dischi.

Del suo genio hanno beneficiato non solo milioni di fruitori di musica in giro per il mondo (gli stessi che non mancano di far comparire di nuovo i suoi dischi in classifica a ogni occasione utile) ma anche la moglie Courtney Love, che all’ombra dei demoni del marito ha costruito gran parte della sua fortuna dilapidando un patrimonio artistico ancor prima che economico, balzando alle cronache negli anni più per le sortite decisamente poco sobrie che per altro.

Da roadie dei Melvins a chitarrista e cantante autodidatta, Kurdt Cobain – così aveva deciso di farsi accreditare a inizio carriera – ha avuto il merito di caricarsi sulle spalle l’epifania di un movimento, quale è stato il grunge, che rappresenta senza tema di smentita l’ultima vera novità espressa in musica passata l’onta dei mostri sacri del rock “classico”: che pure figuravano tra i suoi ascolti preferiti ma che egli contribuì più di altri a sconfiggere definitivamente.

Se gran parte delle band che imperversavano nei 70 e 80 cessò di esistere (artisticamente parlando) una volta giunti i Nineties lo si deve solo a lui: ammesso e non concesso si possa parlare di merito.

Sì, perché l’incommensurabilità del suo lascito artistico fa il paio con un vuoto tuttora incolmabile, tamponato in parte da chi lo conobbe bene e che con lui condivise – in musica – il grigiore delle tristi cittadine industriali americane nonché la stessa scena di riferimento; ma in un mondo in cui in cui abusiamo della parola indie, Kurt Cobain – che indipendente non lo era sotto nessun punto di vista – ci manca comunque troppo.

Forse per via del suo integralismo un po’ puerile, della difficoltà empiricamente provata di venire a patti con gli stessi produttori – che aveva deciso di tirare in ballo in completa autonomia – o magari perché fosse ancora vivo avremmo piacere di notare quel suo fuoriluoghismo che finirebbe pure oggi per farlo arrivare davanti a tutti gli altri. Sarà per questo che a 24 stagioni dalla sua scomparsa, gli anni Novanta sembrano finiti l’altro ieri.

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