Lavorare anche a Pasqua e Pasquetta in un centro commerciale in nome di un aumento dei consumi che non c’è e per mantenere un posto di lavoro che spesso resta instabile ma, nel frattempo, toglie pezzi di vita. È una polemica lunga sette anni quella dell’apertura nei giorni festivi di negozi e shopping center che anche questa volta ha visto in prima fila i sindacati. E pure la chiesa. Tutti contro le liberalizzazioni introdotte dal governo Monti nel 2011, che consentono l’apertura tutti i giorni della settimana, domenica compresa, 24 ore su 24. Negli ultimi anni si è cercato inutilmente di cambiare la legge. Con una proposta arrivata in Senato nel 2015 e che giace ancora a Palazzo Madama. Un disegno di legge che comunque non accontenta tutti, perché per i sindacati non cambierebbe lo stato delle cose, lasciando l’ultima parola alle imprese. Lo spiega a ilfattoquotidiano.it Alessio Di Labio, responsabile della campagna contro le aperture nei giorni festivi per la Filcams Cgil nazionale, la Federazione dei lavoratori del commercio e del turismo. “Siamo l’unico Paese in Europa – dice – che non solo non ha restrizioni su orario e giorni di apertura, ma dove gli enti locali non hanno neppure margini di manovra”. Il risultato? “Decidono i grandi poteri senza che si faccia alcuna differenza tra luoghi con vocazioni totalmente diverse”. Impossibile ad oggi la totale chiusura degli esercizi commerciali, lo sanno anche i sindacati, ma si combatte contro “un evidente peggioramento delle condizioni di lavoro” e per “una regolamentazione, un adeguato riconoscimento salariale e il rispetto della libertà di scelta”.

LE MOBILITAZIONI – Una battaglia soprattutto dei lavoratori. È passato un anno dalla mobilitazione di Serravalle Scriva, dove a Pasqua 2017 centinaia di lavoratori dell’outlet hanno provato a bloccare le entrate, dopo la scelta della proprietà McArthurGlen di tenere aperto anche nel weekend pasquale per la prima volta in diciassette anni. Lo scorso anno in molte regioni sono state promosse forme di mobilitazione in Puglia, Emilia Romagna, Lazio, Umbria e Toscana. L’arcivescovo di Torino, monsignor Cesare Nosiglia, ha criticato le aperture dei supermercati, nel giorno di Pasqua, durante l’omelia della messa in Duomo. Così hanno fatto anche l’arcivescovo di Pisa Giovanni Paolo Benotto in un messaggio rivolto ai fedeli e il vescovo di Tortona, Vittorio Francesco Viola, riferendosi proprio all’apertura pasquale dell’outlet di Serravalle Scrivia.

Quest’anno il problema si è ripresentato. Nel giorno di Pasqua sarà aperto il 19 per cento dei negozi della grande distribuzione, mentre resteranno chiusi le grandi catene di mobili e gli outlet. Non quello di Serravalle, che però avrà un orario ridotto, dalle 14 alle 20. E dopo le polemiche per le aperture di Natale e Santo Stefano aprirà, ma solo per il cinema e la ristorazione anche l’Oriocenter alle porte di Bergamo. Chiara la posizione di Federdistribuzione: “Le imprese a noi associate non vogliono aperture indiscriminate, ma attuano scelte orientate dal buon senso”. Per Confimprese, invece, la chiusura dei negozi a Pasqua “è l’ennesimo controsenso di un Paese che ha dato il via al libero mercato ma non si adegua alle esigenze del retail, che crea occupazione e fa girare l’economia”.

Intanto i sindacati del commercio Filcams, Fisascat e Uiltucs hanno proclamato uno sciopero per la domenica di Pasqua (1 aprile) e il lunedì di Pasquetta (2 aprile). Tra le prime regioni ad aderire, anche in questo caso, Emilia Romagna, Toscana e Lazio, ma anche Sicilia e Puglia al grido “La festa non si vende. Il commercio non è un servizio essenziale”. In Emilia Romagna la protesta riguarda i centri commerciali, mentre in Toscana e Lazio tutto il commercio, dai supermercati ai negozi di abbigliamento. Filcams, Fisascat e Uiltucs di Roma e del Lazio hanno già proclamato anche lo sciopero per il 25 aprile e il primo maggio e ribadiscono il diritto sancito anche in recenti sentenze della Corte Costituzionale ad astenersi dal lavoro nei giorni festivi.

IL QUADRO LEGISLATIVO – Le liberalizzazioni introdotte dall’articolo 31 comma 1 del decreto legge 201/2011 (il decreto Salva Italia), approvato dal governo guidato da Mario Monti erano state avviate già nel 1998 con il Decreto Bersani. Sono almeno quattro anni che in Parlamento si cerca di cambiare la situazione. È ancora fermo in Senato il disegno di legge, a prima firma Michele Dell’Orco (Movimento 5 Stelle) per regolamentare le aperture nei giorni di festa che già era stato approvato all’unanimità alla Camera dei Deputati. La proposta prevedeva che su dodici giorni festivi all’anno, sei dovessero essere di chiusura per i negozi. Ad oggi, però, la situazione resta immutata e si può aprire senza alcun limite.

COSA AVVIENE IN EUROPA – Siamo l’unico Paese europeo ad avere questo tipo di quadro normativo. “In Gran Bretagna – ricorda Di Labio – sono sempre aperti, ma viene fatta una differenziazione a seconda delle regioni, in Belgio si apre dalle 5 alle 20 e la domenica è chiuso, in Francia sono aperti 24 ore su 24 ma la domenica sono chiusi e poi gli Enti locali hanno possibilità di manovra. In Germania di domenica sono sempre chiusi, in Olanda l’apertura è dalle 6 alle 22 e la domenica sono chiusi, mentre in Spagna solo le zone turistiche non hanno limiti di apertura”. Dunque non si tratta solo di un problema di orario o di chiusura domenicale, quanto della possibilità concreta per i Comuni di poter avere l’ultima parola. Anche perché, facendo un po’ di conti, le aperture di domeniche e festivi nella maggior parte dei casi non hanno portato ai risultati sperati in termini di consumi.

UN PROBLEMA DI TURNI E DI SALARI – “Rimanere aperti sette giorni su sette – spiega Di Labio – non può che stravolgere la vita dei lavoratori. Questo anche se si lavora 24 ore a settimana, perché l’equilibrio tra lavoro e vita privata dipende molto dai turni o, per esempio, dal fatto di essere sempre a disposizione”. Per questo  i sindacati chiedono una turnazione equa, “mentre va garantito il riposo settimanale di domenica. Le nuove generazioni – continua Di Labio – lavorano tutte le domeniche, mentre gli altri vengono avvisati da un momento all’altro se devono coprire il turno festivo”. Uno stravolgimento della vita privata, ma non solo. Aprire la saracinesca di domenica ha un costo e se il fatturato, come accade in molti casi, non aumenta ma si riduce, quella differenza bisogna scaricarla sulla forza lavoro. Per chi è coperto dal contratto nazionale c’è una maggiorazione domenicale (generalmente un 30 per cento in più), ma chi ha un contratto atipico non percepisce in busta paga straordinario e festivo in queste giornate di lavoro. Il risultato? “Le aperture selvagge non hanno portato nessun miglioramento economico, né un aumento di posti di lavoro, ma solo effetti negativi in tema organizzazione del lavoro, dagli orari alla flessibilità”. Tutto ciò a danno soprattutto delle lavoratrici, tant’è che il 78% delle dimissioni convalidate dall’ispettorato del lavoro nel 2016 ha riguardato donne con figli.

I SINDACATI: “SIANO I COMUNI A LEGIFERARE” – Per la Filcams Cgil anche la proposta di legge ferma in Parlamento, la 1629, non serve a molto: “Non diciamo di chiudere sempre di domenica o ai festivi, ma chiediamo che si torni a normative locali. Anche qualora fosse approvato il disegno di legge, invece, i Comuni potrebbero dire la loro, ma resterebbero sempre le imprese a dettare le regole”. Senza tenere in considerazione le differenze territoriali, le vocazioni, le esigenze delle diverse aree del nostro Paese. La formula ideale? “Che siano i Comuni a legiferare in materia”. Per gli orari? “Chiaro che diremmo festivi e domeniche chiusi, ma ci rendiamo conto che ci sono delle città dove chiudere a prescindere sarebbe un errore. Bisogna valutare caso per caso”.

LE RISPOSTE DELLE ISTITUZIONI – Non solo i sindacati. Anche le Regioni prendono posizione. L’assessore regionale allo Sviluppo economico e al Commercio della Regione Veneto, il leghista Roberto Marcato, ha annunciato l’avvio di un tavolo regionale aperto a comitati, associazioni di categoria e parti sociali, per aprire una discussione in merito, mentre il governatore della Toscana Enrico Rossi (LeU) ha appoggiato le mobilitazioni dei lavoratori, criticando la liberalizzazione del governo Monti che, secondo il presidente della Regione, ha favorito solo la grande distribuzione mettendo invece in difficoltà i piccoli esercizi commerciali. La Toscana, tra l’altro, si dotò di una legge regionale in materia, poi cancellata dalla Corte Costituzionale. A novembre scorso, invece, il Consiglio provinciale di Bolzano ha approvato all’unanimità una mozione contro il lavoro nelle giornate domenicali e festive.

IL CASO ESSELUNGA – E c’è chi prova a trovare soluzioni anche dall’interno del settore. A giugno scorso è stato prorogato l’accordo sulla gestione del lavoro domenicale in una serie di supermercati Esselunga. È consentito ai lavoratori con domenica obbligatoria di avere fino a 6 domeniche libere in un anno ed è stata confermata l’esclusione dalla programmazione del lavoro domenicale di padri e madri di bambini sotto i tre anni e di lavoratori che assistono persone disabili o con patologie gravi e continuative. Si prevedono anche maggiorazioni in busta paga che aumentano con il numero delle domeniche lavorate.

CENTRI COMMERCIALI, IN ITALIA CONTINUANO A CRESCERE – Quella delle aperture nei giorni festivi, tra l’altro, è una questione destinata a tenere banco anche nei prossimi anni dato che, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, in Italia la crescita dell’eCommerce, non ha frenato quella dei centri commerciali di medio-grandi. Quelli, per intenderci, che offrono una serie di servizi che vanno oltre il semplice shopping. Nel 2017 hanno aperto 8 nuovi shopping center e ne sono stati chiusi due. Secondo il database Reno in Italia oggi ce ne sono 949 e negli ultimi sei anni ne sono stati aperti 41, mentre entro il 2020 altre 80 saranno le strutture ampliate o costruite ex novo. Trentotto solo le aperture previste nel 2018.

Articolo Precedente

Livorno, dal 2010 almeno 7 morti in porto. Sindacati: “Priorità a produttività, meno sicurezza”. Nel mirino Jobs Act e appalti

next
Articolo Successivo

Morti sul lavoro, nel 2018 già 151 vittime. In tutto l’anno scorso erano state 632

next