Mario ha 28 anni, è affetto da tetraparesi spastica, non parla, prende dei farmaci, ha sofferto di crisi epilettiche. “È stato cacciato dal centro diurno e ora è a casa”, racconta a ilfattoquotidiano.it la madre, Elena Improta. Da tempo ormai lei, presidente della Onlus Oltre lo sguardo, lotta insieme ad altre associazioni e molti genitori per tutti i “Mario di Roma e Lazio”.

Loredana Fiorini fa parte di un’altra associazione, la Hermes Onlus. È la mamma di Davide, un ragazzo di 21 anni affetto da tetraparesi spastica, (“non parla ma ha un buon livello cognitivo, a modo suo comunica il bisogno del bagno”, spiega). “Abbiamo visitato un centro. Ma quando si sono resi conto “di quello che era Davide, ci hanno detto che non potevano accoglierlo”. Perché? È “troppo complesso”. “Questi ragazzi, quando diventano adulti, passano da un regime legato a servizi socio-sanitari, quindi regolati dai Comuni, a servizi di tipo sanitario del distretto di salute mentale”, spiega Elena. “Come Mario, si ritrovano a essere considerati talmente complessi che, secondo il criterio e il decreto di accreditamento dei centri diurni ex articolo 26 non possono stare dentro questi centri perché avrebbero bisogno di un rapporto uno a uno con l’operatore”.

I centri diurni ex articolo 26 “sono i centri accreditati con la regione Lazio – e quindi con la Asl – che danno servizi di tipo riabilitativo, dove il concetto di riabilitazione è considerato al 90% di tipo sanitario”. Nel caso di persone con disabilità grave e gravissima “non c’è una definizione rispetto al reale bisogno dell’individuo”, che può essere portatore di una “disabilità complessa”. “I nostri ragazzi hanno bisogno parzialmente dell’area sanitaria. L’esigenza primaria è piuttosto quella della socializzazione, dell’integrazione”, dice ancora Elena Improta. “Il concetto di riabilitazione è collegato alla curiosità: vanno sollecitati, in contesti reali e non ghettizzanti”.

In pratica: le Asl “definiscono” il grado di disabilità, e gli enti possono però decidere autonomamente i criteri di accesso ai centri. Difficile trovare posti in realtà che assicurino un rapporto uno a uno tra assistenti e assistiti. Difficile quindi che i figli di questi genitori trovino un posto. E l’unica alternativa è auto-organizzarsi a proprie spese. “Noi paghiamo un operatore ogni mattina, perché lavoriamo”, dice Elena. “Un migliaio di euro al mese, tutto il mio stipendio. Ma non c’è un rimborso. Mentre per il centro diurno spendevamo la metà e c’era un rimborso della Asl”.

Elena, Loredana, Salvatore, Maurizio, vengono da diversi Municipi di Roma, ma si sono uniti. “Ci siamo auto-tassati e abbiamo messo su un progetto che coinvolge i nostri ragazzi tre pomeriggi alla settimana”, dice Salvatore Memeo. “Fino a giugno 2017 siamo stati ospiti di una ex scuola materna, una struttura data in uso alla consulta dell’handicap del VI municipio”, dice Loredana. “Avevamo 25 ragazzi. Ma tutto questo ci è stato tolto: prima dell’estate l’amministrazione si è riappropriata dell’immobile sospendendo tutte le attività: un problema di pini da mettere in sicurezza. Ora siamo ospiti di una segreteria del centro commerciale Le Torri. Ma non abbiamo risposte. Anzi, raccontano anche di “momenti di tensione in municipio tra genitori e assessori”. “Non si può ragionare con i regolamenti e con i numeri”, chiosa Salvatore. “Dietro ai regolamenti ci sono le persone”.

La Regione Lazio “ha firmato lo scorso 20 novembre un accordo con tutte le associazioni ed è stato avviato un tavolo tecnico per definire in modo stringente i nuovi setting assistenziali affinché i Centri di riabilitazione territoriale (ex art. 26 ) prendano in carico tutti i pazienti anche i più gravi”, spiegano dalla regione a ilfattoquotidiano.it. “Le tariffe saranno rivalutate proprio al fine di migliorare gli standard organizzativi nei vari livelli assistenziali. La nuova Giunta con i nuovi assessori di riferimento ha tra le priorità riuscire a dare risposte concrete sulla questione Centri di riabilitazione territoriale (ex art. 26 )”.

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