Tim-Telecom sta subendo l’ennesimo cambio di proprietà. Con la scalata del fondo americano Elliott, che tenta di scalzare dalla gestione i francesi Vivendi, si assiste – con attori diversi – al susseguirsi di vicende analoghe che si sono avute dopo la privatizzazione dell’ex monopolista nel 1997, con cambi continui di proprietà e di amministratori (passati alla “storia” spesso solo per le loro amorali buonuscite).

Il fatto che l’azienda sia ancora solida ha del miracoloso, merito esclusivo di chi vi lavora. Intanto “l’italianità” dell’azienda è un lontano ricordo! Invece rimane intatta l’appetibilità del suo asset strategico, la rete, che seppur da ammodernare rimane imprescindibile per qualsiasi progetto di cablatura del Paese.

In una recente ricerca di Mediobanca, gli indicatori economici di Telecom (al 16° posto della classifica mondiale per fatturato delle Tlc e al 7° posto in Europa) sono perlopiù positivi. Condivide con la norvegese Telenor la migliore redditività industriale – misurata dal margine operativo netto -, mentre il rendimento del capitale investito (Roi) è in linea coi principali competitor. La produttività del lavoro – misurata dal fatturato per dipendente – è bassa seppur non in misura elevata.

I debiti finanziari sul patrimonio (l’indebitamento è sempre stato un pesante fardello), sono pari al 138%, – risultato migliore rispetto a Telefònica (213%), a Deutsche Telekom (166%).
Va segnalato che fra gli ex monopolisti, Telecom Italia ha mantenuto la quota maggiore nella telefonia fissa con il 56% (BT Group ha il 38%). Nel contempo l’età media dei cespiti è la più alta, 25 anni. Ciò è causato probabilmente dalla rete – per anni un peso – che ora, con la fibra ottica, sta diventando il vero business, in quanto su di essa Internet e Tv diverranno tutt’uno in ogni abitazione! Banda larga che i “padroni” della Tv hanno sempre visto come fumo negli occhi nel presupposto che potesse incrinare il loro dominio.

Insomma, i dati confermano la validità dell’azienda, che paga le scelte sbagliate di diversi amministratori e i continui cambi di proprietà.

I problemi ovviamente ci sono. La quota del fatturato è bassa per mantenere alto il livello di competizione. E questo evidenzia due limiti dell’azienda: la limitata espansione all’estero e una scarsa diversificazione.

Il mercato italiano è il quarto in Europa, ma è in calo (come peraltro negli altri Paesi): negli ultimi quattro anni è sceso di -18%. Da ciò si deduce che le possibilità di crescita nel mercato domestico nel segmento della telefonia siano piuttosto contenute, data anche l’aggressività dei due competitor, Vodafone e Wind Tre Italia. Espandersi e diversificarsi sono le uniche chances. Finora le poche esperienze all’estero, in Sud America e in alcuni Paesi dell’Est Europa (come la nota vicenda di Telecom Serbia), hanno dato più guai che profitti.

Nell’audiovisivo c’è la presenza piuttosto contenuta di Tim Vision e forse è auspicabile che la società non si butti a capofitto sui diritti del calcio, settore quanto mai periglioso bensì sia l’unica “arma” per espandersi.

La questione all’ordine del giorno è la rete. Lo scorporo della rete e la sua valutazione (10-15 miliardi?), la partecipazione nella società del nuovo gestore unico: sono queste le problematiche che il nuovo management dovrà affrontare. Su queste risposte si conformerà il destino di Telecom.

Certo sarebbe preferibile che scelte così delicate fossero ancorate alle variabili industriali e non a quelle puramente finanziarie: le prime hanno in genere una visione di lungo periodo e privilegiano il rafforzamento della struttura dell’azienda – ed è ciò che manca a Telecom -, mentre la finanza tende ad avvantaggiarsi dei profitti immediati, agevolando comunque la pulizia dei conti.

È impossibile prevedere quali saranno gli sbocchi della vicenda; sarebbe auspicabile che un Governo autorevole vigili e svolga una vera politica industriale salvaguardando un’azienda che è veramente un patrimonio del Paese. Sarebbe anche il caso di rivedere le competenze delle varie autorità, le quali intervengono troppo spesso a giochi fatti.

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