di Emiliano Romeo

Un evento ricorrente nella storia della della Seconda Repubblica è la cosiddetta regola dell’alternanza, ovvero il fatto che nessun partito è riuscito nel tempo a farsi riconfermare dagli elettori dopo aver governato. Si sono trovate, e in effetti ci sono, molteplici risposte che spiegano questa fattualità storica, e una di queste è sicuramente relativa alla crisi della rappresentanza, che ha coinvolto la politica a diversi livelli e settori.

Il fatto è, però, che la crisi della rappresentanza nell’epoca della politica pubblicitaria, la stessa che rende oggi così simile la macrostruttura delle campagne elettorali – con il sistema critica, promessa, proposizione di un nuovo scenario – deve invece una volta di più risvegliare la nostra attenzione, perché è incredibile vedere come un consenso basato non più esclusivamente sulla presenza sul territorio, ma soprattutto sulla comunicazione diretta ed empatica con masse di elettori, ottenga dei consensi così poco durevoli, destinati ad erodersi ben prima del momento fatidico dello scioglimento delle Camere.

Un esempio concreto del problema è rappresentato dai prossimi decisivi passaggi cui la politica italiana sarà chiamata in questi giorni: l’elezione del presidente della Camera, del Senato e la formazione di un governo. A proposito del governo, per esempio, sarebbe una scommessa facile dire che di qui a qualche settimana assisteremo a un coro più o meno compatto che ci ricorderà dell’articolo 92 della nostra Costituzione, quello secondo il quale “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri’. Sta di fatto che la nostra Costituzione, che probabilmente è davvero, e non per retorica, una delle migliori del mondo, non a caso pone l’articolo 92 ben novantuno articoli dopo l’articolo 1, quello della sovranità che “appartiene al popolo”. Pertanto sarà nella decisiva proposta che in questi giorni faranno partiti e movimenti, una proposta composta di nomi e di facce, centrali nell’ottica del consenso popolare, che si giocherà una partita decisiva.

Del resto, questo è un concetto che le grandi aziende oggi non solo conoscono, ma sul quale basano gran parte del loro successo: si tratta della cosiddetta brandizzazione, il legame che il cliente crea con un marchio fino a sentirlo quasi come una parte di sé. Per lo stesso principio, quando un elettore vota un rappresentate, o porta attraverso le elezioni in Parlamento un progetto politico, è perché si identifica con quest’ultimo. Così, quando il nome del rappresentante, o la proposta di legge, sono gli stessi che l’elettore ha accompagnato durante la campagna elettorale con il suo convincimento, i suoi sogni e le sue speranze, l’elettore li avverte in qualche modo come parte di sé, ed è disposto ad accompagnare tali rappresentanze e proposte per più tempo rispetto a quanto siamo disposti a concedere a ciò che avvertiamo come estraneo, sia esso un politico rimasto in ombra durante le elezioni, o una proposta differente dal programma annunciato dal partito. E ciò, anche nel concreto, finisce con il rendere ogni azione governativa più efficace.

In questo senso, si è talmente mancato nel formare questo rapporto, che più che ad una politica estranea, abbiamo assistito negli ultimi anni ad una politica aliena. Il problema che le politiche passate non siano piaciute all’elettorato, infatti, è un problema che sta a valle e non a monte del risultato elettorale: si sa che prevenire è meglio che curare, ed in effetti una più diretta correlazione tra le politiche fatte e quelle proposte, avrebbe scremato a monte, durante il vaglio elettorale, tanti progetti che si sono rivelati fallimentari. Camera, Senato, governo: è questo il momento della svolta o della continuazione di una crisi che rischia di acuirsi sempre di più, creando un elettorato sempre più nomade d’idee e bisognoso di cambiamento. Per dirla con Aristotele, tertium non datur. Perché, a volte, 1 è maggiore di 92.

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