di Nicola Donnantuoni*

Sulle facciate dei nostri tribunali campeggia sovente un’iscrizione antica, scolpita ancora nella pietra: alterum non laedere, non recare danno ad altri. Eppure, con riferimento al rapporto di lavoro, la regola apparentemente tanto semplice, una volta varcata la soglia del Palazzo, sembra sbiadire, ricevendo ben poca tutela. L’ambiente di lavoro, per le sue caratteristiche e per la natura degli interessi che coinvolge, è un luogo in cui facilmente si verificano danni alla salute: la prevaricazione, la persecuzione psicologica, lo stress cui sono sottoposti i lavoratori conducono spesso alla mortificazione morale e all’emarginazione, al dolore e alla sofferenza, con effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico e della personalità. Si calcola che in Italia il fenomeno del mobbing coinvolga direttamente oltre un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati.

Non so se l’Istat abbia elaborato statistiche in proposito, ma la lettura dei repertori di giurisprudenza mi lascia l’impressione che una buona percentuale delle domande di risarcimento per mobbing venga troppo spesso e facilmente respinta. Forse è un problema di corretta individuazione della domanda, ma più frequentemente pare una questione di oneri probatori: le domande sono respinte perché, si dice, il lavoratore aveva l’onere di fornire molte prove che non ha fornito (almeno sei mesi di comportamenti con carattere persecutorio, almeno un’azione vessatoria a settimana, l’intento datoriale di vessare la vittima e costringerla alle dimissioni). Ma è davvero così? Serve davvero così tanto per poter ottenere un risarcimento? Io credo di no.

Datore di lavoro e lavoratore sono legati da un contratto in base al quale ciascuna delle due parti deve rendere la propria prestazione in modo esatto, con obbligo di risarcire il danno in caso di inadempimento (art. 1218 Cod. Civ.). Dal lato del datore di lavoro l’obbligo principale è quello di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 Cod. Civ.), misure che non riguardano solo la classica prevenzione antinfortunistica, ma la tutela complessiva della psiche e della personalità del lavoratore.

La responsabilità di natura contrattuale porta con sé un’importante conseguenza in ambito processuale: non è il lavoratore a dover provare le numerose e spesso diaboliche circostanze che gli si domanda di provare, ma è il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. La Corte di Cassazione, ne avevamo già parlato qualche tempo fa, negli ultimi anni pare aver compreso il problema, con un orientamento che si sta felicemente consolidando e che si occupa del diverso fenomeno dello straining (Cass. n. 3977/2018; Cass. n. 3971/2018; Cass. n. 3871/2018).

Secondo la Corte, la definizione di mobbing e le sue caratteristiche (la cui prova veniva posta a carico del lavoratore) non sono contenute all’interno di una norma di legge, ma provengono dalla medicina legale. Se non esiste una norma che descriva il mobbing (si tratta però di un diverso problema di politica legislativa, cui prima o poi dovremo rimediare), allora è difficile pretendere dal lavoratore la prova di un fenomeno che il Legislatore non ha descritto. Le domande risarcitorie potranno essere accolte se risulteranno rispettose dell’unica norma che viene in rilievo, la quale, ricordano i Giudici, è l’art. 2087 cod. civ., che “resta pur sempre la norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro”, con la conseguenza che “il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative stressogene (c.d. Straining)”.

La responsabilità del datore di lavoro e l’obbligo risarcitorio sorgono dunque ogniqualvolta l’evento dannoso subito dal lavoratore possa essere ricondotto, con adeguato nesso di causalità, al comportamento colposo del datore di lavoro, all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali, al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede.

* Avvocato giuslavorista, socio AGI – Avvocati Giuslavoristi Italiani, nato e cresciuto a Milano, mi occupo da sempre di Diritto del Lavoro. Cerco, per quanto mi è possibile, di esercitare la professione nel rispetto di un significato etico e il Diritto del Lavoro, in questo, mi è di aiuto: i suoi protagonisti sono soggetti appassionati e le loro passioni sono rivolte alla ricerca di ciò che è giusto.

Articolo Precedente

Statali, una parte degli aumenti è “a tempo”. Dal 2019 chi guadagna meno perderà fino a 29 euro al mese

next
Articolo Successivo

Lavoro, a Matteo è costato un braccio. A 7 anni e 33 interventi dall’incidente: “Ai colpevoli 150 euro di multa, a me ancora niente”

next