La notizia del licenziamento ha raggiunto Rex Tillerson durante un viaggio di lavoro in Nigeria. Come ha detto un suo portovoce, il segretario di stato “non ne sapeva nulla”. La stessa sorpresa è stata manifestata, nelle ultime ore, da molti funzionari del Dipartimento di Stato e delle agenzie che si occupano di sicurezza nazionale. Sorprende quindi la tempistica dell’allontanamento di Tillerson; certo non la sostanza. Da tempo, molti mesi, si sapeva che Donald Trump e il suo segretario di stato erano ai ferri corti. Il presidente aveva espresso in privato la volontà di liberarsi di Tillerson. Tillerson aveva più volte pensato alle dimissioni. Il benservito era dunque nell’aria, prevedibilissimo.

Lo stesso Trump, parlando ai giornalisti dopo l’annuncio del licenziamento e la nomina di Mike Pompeo, ha spiegato che “con Rex eravamo in disaccordo”, citando in particolare l’accordo sul nucleare iraniano: “Io penso sia terribile – ha detto -, immagino che per lui sia ok”. Il presidente ha poi citato un “atteggiamento diverso, un diverso modo di pensare”, rispetto a Tillerson. Laddove invece la concordanza di opinioni con Mike Pompeo, il direttore della CIA che ora arriva al Dipartimento di Stato, è per lui “completa”.

Si conclude così una relazione che, sin dall’inizio, ha avuto più bassi che alti. Trump aveva scelto Tillerson, ex CEO di ExxonMobil, per la sua esperienza e i contatti collezionati in anni di lavoro in Messico, Russia, Medio Oriente. La personalità umana e politica del segretario di stato non gli era però mai andata davvero giù. “Rex è troppo establishment”, dicevano i collaboratori del presidente. Soprattutto, Rex Tillerson era molto lontano dalle prese di posizione pubbliche di Trump. Per mesi, ad esempio, il segretario di stato ha pubblicamente accusato la Russia di essersi immischiata nelle elezioni presidenziali del 2016. Un tema di cui, all’inizio, Trump non voleva nemmeno sentir parlare e che, alla fine, ha accettato di malavoglia, sempre comunque precisando che “la Russia non c’entra nulla con la mia vittoria”.

Oltre a scontri sul ruolo della Nato e sul commercio con la Cina, a far precipitare il rapporto tra i due è stato soprattutto il nucleare iraniano. Tillerson ha con ostinazione spinto Trump a tutelare l’accordo, sino a una dichiarazione pubblica, lo scorso luglio, in cui il segretario di stato affermava che l’Iran stava rispettando i punti dell’intesa. Le pressioni di Tillerson, alla fine, avevano convinto Trump, che nei mesi successivi è però arrivato a rimpiangere quella scelta (fino alla dichiarazioni di queste ore: “L’accordo sul nucleare iraniano è terribile”, preludio a un suo prossimo, possibile smantellamento). Anche sulla guerra in Afghanistan non è sembrato regnare l’accordo. Se Trump (dichiarazione dello scorso 21 agosto) era convinto che le truppe americane avrebbero combattuto “fino alla vittoria”, Tillerson si è sempre dichiarato per un approccio meno totalizzante e impegnativo.

Alle divergenze politiche si sono con i mesi aggiunte le incomprensioni umane. Il carattere di Trump, le sue collere, i suoi tweet roboanti, le sue esplosioni contro amici e nemici, gli improvvisi giri di valzer sui temi più diversi, non sono mai piaciuti a Tillerson, fautore di uno stile più felpato (ciò che gli ha anche guadagnato molte critiche dai funzionari del Dipartimento di Stato, che hanno spesso considerato Tillerson troppo debole, incapace di difendere le prerogative dei diplomatici USA). Il giudizio di Trump – “Rex è troppo establishment” – era in fondo il segno di una distanza incolmabile con i mondi – il grande capitalismo industriale e finanziario, i circoli politici più globali e globalizzati – che Tillerson rappresentava. Alla diffidenza e all’aperta freddezza del presidente, Tillerson ha sempre risposto con altrettanta scarsa simpatia e comprensione. Lo scorso ottobre NBC News riferiva che Tillerson aveva in pubblico definito Trump un “moron”, un coglione, un imbecille. Il segretario di stato non ha mai negato di aver usato quell’espressione.

Lo scontro finale, tra i due, avviene probabilmente sulla questione della Corea del Nord. Nel momento in cui Trump annuncia l’intenzione di avviare negoziati con Pyongyang – negoziati, lo ha spiegato lo stesso presidente, che lui e lui solo ha deciso di intavolare, dunque senza l’intervento del segretario di stato – ha bisogno di avere al suo fianco qualcuno di cui si fida completamente, qualcuno con cui esiste perfetta convergenza di vedute. Mike Pompeo è, a questo proposito, la scelta perfetta. Pompeo è diventato un politico nazionale grazie al Tea Party, da alcuni visto come il precursore del movimento nazionalista e conservatore che ha poi trovato in Trump il suo punto di riferimento. Di più, da direttore della CIA, Pompeo ha instaurato un rapporto di fiducia e stima con Trump (cui, almeno tre volte alla settimana, ha consegnato personalmente i rapporti dell’intelligence; si dice che Trump, spesso, gli ha chiesto di fermarsi e di discutere di politica).

È stato non a caso Pompeo che, domenica, ha spiegato la decisione di Trump di aprire a Kim Jong-un. E l’ha spiegata, come hanno fatto notare in molti, senza nemmeno nominare Rex Tillerson. In quelle ore – quando peraltro il segretario di stato era già stato informato del suo licenziamento – Tillerson trovava nuove ragioni di scontro con la Casa Bianca. Affermava infatti che il tentato avvelenamento della spia russa in Inghilterra “era responsabilità di Mosca”, mentre Sarah Huckabee Sanders, la portavoce di Trump, condannava il fatto senza accusare direttamente il Cremlino. A quel punto, però, il destino di Tillerson era già deciso. Il presidente aveva preso la sua decisione. “Rex è un brav’uomo – ha commentato Trump nel suo addio -. Sarà sicuramente più felice così”.

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