di Paolo Bagnoli

Sono state le elezioni della paura e della ramazza. Alla prima dobbiamo la vittoria della destra. Si tratta di una destra nuova e vecchia al contempo poiché Matteo Salvini ha fondato un nuovo partito sui modelli delle emergenti destre europee; non più territorialmente espressione del solo Nord e della presunta voglia secessionista urlata da Umberto Bossi, conferendogli un ruolo nazionale. Della vecchia formazione dell’ampolla che Bossi andava a riempire alla sorgente del Po, ne ha fatto una visegradista, ossia ben più marcata rispetto al lepenismo che sta tracimando in Francia su se stesso. Per riuscirci ha giocato essenzialmente sull’immigrazione; una questione che ha visto l’Italia pasticciare, senza combinare nulla che assomigliasse a una gestione seria, per il semplice fatto che non ha mai avuto in proposito una politica, limitandosi a salmodiare la litania dell’accoglienza. Lo stesso Marco Minniti, a ben vedere, ha combinato meno di quanto gli si attribuisce poiché la gente non si riscalda delle percentuali più basse degli sbarchi, quanto s’impaurisce del caos e della violenza urbana di cui spesso gli extracomunitari sono protagonisti. […]

Di fronte a un Berlusconi che ha fatto il replicante di se stesso – peraltro senza successo e le cose ci dicono che un giorno, fuori Berlusconi, se ne andrà anche Forza Italia –  e al segmento di Giorgia Meloni la quale, in “zona Cesarini”, ha cercato di recuperare con la missione in Ungheria, Salvini ha capito il vento che tira in Europa e si è messo a soffiarlo in Italia diventando il leader di una destra che sarà sempre più sua. […] Il Pd, in primo luogo, ma anche il partitino di Pietro Grasso che aveva proclamato addirittura di voler rifondare la sinistra. L’equivoco del Pd sembra finito e, con esso, quello dell’agognato centro-sinistra al cui definitivo tramonto ha dato pure una mano Romano Prodi; una mano per sorreggere il nulla; per non restare solo lo ha fatto “insieme” al nulla. Che miseria: la politica fatta con rancore non è altro che miseria. Matteo Renzi, rottamatore e asfaltatore è riuscito nel capolavoro di rottamare se stesso e di asfaltare il proprio partito. Non ci sarebbe da meravigliarsi si se si sfaldasse una volta per tutte considerato anche il fatto che ci è sempre parso impossibilitato ad essere “partito”. Dopo il disastro che ha combinato Renzi, non rinunciando a tirare due sberle a Sergio Mattarella e a Paolo Gentiloni, ha annunciato che si dimetterà con una sceneggiata spavalda e provocatoria simile a quella che avevamo già visto dopo il referendum perso sulla riforma costituzionale. Paradossalmente ora è nelle condizioni di giocare al meglio e senza impicci la sua personale partita in totale deresponsabilità e autoesaltazione. Di sicuro resta in campo in maniera salda forte, tra l’altro, dal un suo “partito nel partito” rappresentato dal gruppo Pd al Senato. Cosa può combinare non è immaginabile; certo che tutto sarà fuorché un semplice senatore, come ha pomposamente e stucchevolmente dichiarato con un sorriso di sfida.

Si comprende bene la gioia del 5Stelle i quali, pur tuttavia, non convincono nemmeno nella versione governista. E non solo e tanto perché riescono a dire tutto e il contrario di tutto – altro che coloro che aprivano la Camera come una scatoletta di tonno; sono una grande formazione di centro che aspira solo alle poltrone del governo e non a caso le è subito arrivato l’endorsement del mondo industriale – abbondando nella demagogia che li contraddistingue, ma preoccupanti, soprattutto, per il tono di Sant’Uffizio della Repubblica che rivendicano. Quando dicono che tutti ora “dovranno passare da noi” si configurano alla stregua di un tribunale morale – da mani pulite siamo passati a scontrini puliti! – che, in nome dei cittadini – categoria che dice, in sé e per sé, ben poco – stabiliscono ciò che è bene e morale per il Paese; quali grande garante collettivo con un ruolo simile a quello che Beppe Grillo esercita nel Movimento. […]

Come possa evolvere il quadro politico è arduo prevedere. Parlare di nascita della Terza Repubblica è addirittura patetico anche se la sensazione che non tutto sarà come prima è assai forte. La nostra “classe politica” – si fa per dire – ha dimostrato il suo inconsistente livello nel fare una legge elettorale proporzionale incardinata su coalizioni. Ora, il confronto tra coalizioni comporta un premio di maggioranza, altrimenti un sistema elettorale come l’attuale, al di là di quanto si vuole far credere, nella sua ibridicità confusa, non porta alla governabilità, almeno per quanto concerne i numeri che sono indispensabili per formare una maggioranza. Se ciò è avvenuto è perché, essendosi smarrita da troppo tempo, la politica e le sue ragioni, se n’è andata, con essa, anche quella della democrazia. Una dimostrazione  l’abbiamo riscontrata pure nel modo con il quale sono state confezionate le liste. Altro che Terza Repubblica: occorre reinventing the democracy.

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