Mentre impazzano le analisi sul voto del 4 marzo e sui futuri scenari di governo, c’è un dato di fatto che meriterebbe di essere approfondito: nell’ultimo quarto di secolo, in Italia chi ha vinto le elezioni ha sempre perso al giro successivo. Ossia, in 24 anni nessuno l’ha mai spuntata in due corse di seguito. 1994: vince il centrodestra di Silvio Berlusconi (che governa solo sette mesi). 1996: vince il centrosinistra di Romano Prodi (con successivo ricambio di vari governi “rossi”). 2001: vince il centrodestra di Berlusconi (che regge con qualche rimpasto fino a fine legislatura). 2006: vince il centrosinistra di Prodi (con una maggioranza risicata che dura poco). 2008: vince il centrodestra di Berlusconi (che nel 2011 si dimette aprendo la strada a Mario Monti e ai suoi tecnici). 2013: vince il centrosinistra di Bersani (per una manciata di voti: Enrico Letta fa le larghe intese, poi arriva Renzi, infine, dopo la sconfitta del referendum costituzionale, Paolo Gentiloni). 2018: il Pd e il centrosinistra vanno ai minimi termini, il centrodestra ha la maggioranza relativa dei voti (vedremo i seggi) e i 5 Stelle sono il primo partito.

E’ un caso? O – al netto di singole responsabilità ed errori, e di ogni legislatura che fa storia a sé – governare porta male, a destra come a sinistra? E quando si torna alle urne la voce di chi sta all’opposizione arriva agli elettori sistematicamente più forte e chiara rispetto a quella di chi ha governato? E se sì, perché? Difficile dare una risposta, la materia è più da politologi che da giornalisti (chi conosce buoni studi scientifici in materia li segnali pure, grazie). Quel che è certo è che per tutta la Seconda repubblica è andata così.

Così come sarebbe meritevole di analisi un secondo punto, collegato al primo: la gigantesca volatilità del voto fra un’elezione e l’altra, accentuata negli ultimi anni. Arrotondando, nel giro di una legislatura il Pd passa dal 25% (Politiche 2013) al 40% (Europee 2014) al 18% (Politiche 2018). Negli stessi cinque anni la Lega nord balza dal 4% (Politiche 2013) al 6% (Europee 2104) fino all’attuale 17% (Politiche 2018). Per non dire dei 5 Stelle, che in una botta sola accelerano da zero al 25% (Politiche 2013), scendono al 21 (Europee 2014) e oggi sfondano al 32% (Politiche 2018). Che cosa determina questi sbalzi ormonali?

E ancora, con l’eccezione dei 5 Stelle, le alterne fortune dei maggiori partiti si sovrappongono perfettamente alle parabola dei rispettivi leader: ascesa e caduta di Renzi, ascesa di Salvini e, per Forza Italia, l’ultraventennale altalena di Berlusconi. L’estrema personalizzazione della politica, nel bene e nel male, è un terzo punto su cui riflettere.

Uno studio pre-elettorale dell’ottobre 2017 dell’Istituto Cattaneo (dall’illuminante titolo Regole incerte, elettori mobili e partiti disorientati. Quale sarà il prossimo scenario politico elettorale?, di Marco Valbruzzi e Rinaldo Vignati) sottolinea come, in generale, gli elettori che passano da un fronte all’altro sono relativamente pochi (salvo ovviamente la nascita da zero dei 5 Stelle, che inevitabilmente hanno preso da altri, più dal centrosinistra che dal centrodestra secondo il Cattaneo). A far la differenza sono invece gli astenuti: quelli che non vanno più a votare per punire lo schieramento che avevano scelto la volta prima, quelli che invece si risvegliano dal sonno per premiare chi avevano precedentemente snobbato. Vedremo, quando avremo le analisi dei flussi elettorali del 4 marzo (qui le prime analisi), se da questo punto di vista qualcosa è cambiato (contando che il Pd è reduce, oltretutto, dalla scissione che ha dato vita a Leu e dintorni). Ma l’andirivieni dei delusi della politica può essere un punto di partenza per provare a spiegare il tema da cui siamo partiti.

Ora, mentre si contano i seggi e le possibili maggioranze, chi può punta legittimamente ad andare a governare. Fino al prossimo giro di giostra.

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