Chi scrive lettere oggi? Nel tempo delle videochiamate, di Whatsapp, di Facebook, esiste ancora chi si prende il tempo di scrivere, parola dopo parola, un messaggio che vada oltre la breve frase o l’emoticon?

Oggi le lettere non esistono più, almeno non con la valenza che avevano un tempo. Una lettera era spesso l’unico modo di comunicare a distanza. Non si sapeva se e quando si avrebbe avuto una risposta, e nemmeno quando si sarebbe potuto scrivere ancora. Per questo le lettere sono state per secoli una forma d’arte. Nelle lettere dei grandi scrittori e artisti si cela un’intensità e un fervore di enorme fascino. Leggendo le lettere di quegli anni possiamo imparare molte cose sull’oggi. Quel mondo lento può ricordarci cose importanti, che nella nostra veloce frenesia stiamo dimenticando.

Quando un autore scrive un romanzo, un racconto o un saggio ha sempre in mente un vasto numero di potenziali lettori. Così lo lima, lo lavora, e lo struttura pensando – più o meno consciamente – a loro. Esiste però una scrittura che è rivolta a un unico lettore: le lettere. Scrivere per una persona rende le parole più libere, meno controllate e per questo molto interessanti. “Più la busta è sporca, più il contenuto è serio e importante” diceva Lev Tolstoj.

Mi sono appassionato alle lettere leggendo quelle che Vincent Van Gogh mandava al fratello Theo, in cui gli raccontava le sue insicurezze, i suoi demoni, il suo amore per la pittura. Tra le mie preferite ci sono anche quelle del poeta Rainer Maria Rilke (l’Orma ne ha pubblicato una selezione molto interessante intitolata “La vita comincia ogni giorno”). A un certo punto Rilke scrive “non voglio più scrivere lettere. Dire a qualcuno che cambio: perché? Se cambio, non sono più quello di prima, sono qualcosa di diverso da quello che ero: è evidente, così, che non ho più conoscenti. E come scrivere a estranei, a gente che non mi conosce?”. Quella scrittura era un modo per conoscere sé stessi, per mettersi allo specchio.

Recentemente sono usciti due volumi che ci fanno immergere nelle vite di due autori che hanno profondamente innovato la letteratura: Edgar Allan Poe e Samuel Beckett, in due edizioni critiche di altissima qualità. Lettere (Il Saggiatore) di Edgar Allan Poe raccoglie la produzione dell’autore che va dai suoi quindici anni fino a poche settimane dalla morte. A colpire maggiormente sono quelle inviate dal giovane Edgar al signor John Allan, che fu di fatto il suo padre adottivo. Poe ebbe una vita dissoluta, segnata dalla povertà, dai debiti, da un successo tardivo e da molti problemi causati dai suoi difficili rapporti col mondo. Nelle lettere al padre lo vediamo raccontare mirabolanti storie, più o meno plausibili, per convincerlo a inviargli altro denaro. Gli scrive di furti, di essere stato raggirato, nascondendo probabilmente di averli sperperati in attività che il padre non avrebbe gradito. Nelle sue epistole dissimula, non è mai chiaro il limite tra la menzogna, la realtà e la bugia diventata vera a furia di raccontarla. Poe si trasforma inconsciamente in uno dei suoi personaggi, vittima innanzitutto di sé stesso.

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L’altra uscita su cui voglio soffermarmi è Lettere 1929-1940 (Adelphi) di Samuel Beckett che raccoglie le missive dello scrittore premio Nobel quando era ragazzo, tra i 23 e i 34 anni. Beckett si firma “Sam” e scrive i pensieri passionali e tumultuosi degli anni della sua formazione. Scopriamo così i giudizi aspri che Sam – con il tipico livore giovanile – riservava ad alcuni intoccabili di quegli anni. Detestava Hemingway, che considerava alla stregua di romanzi rosa, accusava Elliot di essere troppo “misurato” e “professionale” definendolo “brava persona, ma cattivo poeta”. Era contro la scrittura “pignola e artificiosa”, cosa che poi lo porterà a scardinare tutti i sistemi con i suoi testi del “teatro dell’assurdo” come Aspettando Godot e Finale di partita. Odiava anche la sua città, Dublino: “Qui c’è solo nebbia e sottomissione”. Lo psicanalista Umberto Galimberti afferma che “le uniche idee buone che ha l’uomo gli vengono tra i venti e i trenta anni, poi rimugina solo su quelle”, beh, in queste lettere c’è già tutto Beckett: dissacrante e innovativo.

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Chiudo con una domanda aperta. Oggi che le lettere non si scrivono più, viene da chiedersi se esista ancora questa forma narrativa, così diretta e magnificamente spudorata. Varrà la pena un giorno leggere le e-mail di Philip Roth o i messaggi Whatsapp di Emmanuel Carrére?

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