Avevano annullato e ripetuto da zero il concorso per agenti di Polizia, dopo la fuga di notizie sulle risposte grazie a cui tutti i candidati avevano ottenuto il massimo del punteggio. Hanno rifatto le prove, ma stavolta hanno violato il diritto all’anonimato dei candidati. Risultato: il Tar del Lazio ha accolto il ricorso degli esclusi che così saranno tutti ammessi all’ennesima ripetizione dei test.

Il concorso per 559 agenti di Polizia di Stato diventa una farsa all’italiana: in realtà lo era da tempo, dopo l’esito dei quiz svolti nel 2016, con tanto di inchiesta penale tutt’ora in corso. Al centro di quell’indagine c’è la prima prova, le domande a crocette sulla cultura generale: quasi 200 candidati avevano ottenuto il punteggio massimo, non sbagliando neanche una delle ottanta risposte, mentre altri 140 circa avevano fatto un solo errore e un centinaio ne aveva commessi due. Tra coloro che avevano risposto in maniera corretta, quasi tutti risultavano residenti in Campania, stessa Regione della Società che aveva vinto l’appalto dal Ministero dell’Interno per la somministrazione dei quiz. Una serie di strane circostanze che avevano costretto il Dipartimento di Pubblica sicurezza del Viminale ad azzerare tutto per “garantire l’imparzialità delle operazioni di selezione”, con tanto di figuraccia pubblica nazionale.

Di male in peggio, anche la seconda preselezione è finita in tribunale. L’esito delle prove stavolta pare regolare: gli ammessi ai test attitudinali sono stati solo 933. Il problema è un altro: il Ministero non ha rispettato l’elementare principio dell’anonimato dei candidati, previsto da qualsiasi tipo di concorso pubblico e non. Nel foglio di ingresso con tutti i partecipanti, accanto al nome compariva anche il codice segreto: poi nella busta i candidati dovevano inserire solo quest’ultimo, ma essendo stata già rivelata l’associazione in un documento visibile a tutti, chiunque avrebbe potuto risalire all’autore della prova. Una svista macroscopica che è costata la seconda bocciatura per il concorso.

Il Tar del Lazio, che già si era pronunciato in questo senso con precedenti sentenze cautelare, ha accolto con giudizio di merito il ricorso degli esclusi: gli obblighi di trasparenza non sono stati rispettati, e anche se magari ne può risultare un “beneficio eccessivo” i ricorrenti vanno promossi alla fase successiva. Ma non è tutto, la sentenza del Tribunale amministrativo stabilisce anche un importante precedente: d’ora in avanti si cambia tutto nei concorsi pubblici. “La decisione – si legge nel dispositivo – avrà come ulteriore effetto l’onere per l’Amministrazione di ripensare le modalità con le quali espletare le diverse selezioni che periodicamente bandisce, individuando forme di somministrazione dei test di prova che siano scrupolosamente rispettose del principio dell’anonimato, onde evitare di incorrere in consistenti contenziosi”. La tirata di orecchi per il Ministero è completa, anche perché – come sottolineano i giudici – “le pesanti ricadute sulle casse erariali sono facilmente intuibili”. “Si tratta di una decisione importantissima su una questione di legalità: solo rispettando le garanzie di segretezza e anonimato si possono prevenire effettive violazioni, in un settore nevralgico come quello dei concorsi pubblici”, spiegano gli avvocati Santi Delia e Michele Bonetti che hanno curato il ricorso.

Per il futuro, dunque, i test andranno ripensati. Intanto, però, al Viminale devono occuparsi di chiudere una volta per tutte il concorso di Polizia, che si trascina ormai da troppo tempo. La procedura era stata bandita nel gennaio 2016, e molto partecipata (oltre 14mila i candidati, a fronte di 559 posti a disposizione). A distanza di due anni, non è ancora conclusa: il primo corso per i vincitori dovrebbe iniziare il 26 febbraio, ma i ricorrenti (almeno 50 in tutta Italia) sono stati ammessi di diritto ai test attitudinali, per cui il Ministero dovrà predisporre presto delle prove suppletive. Sperando che siano le ultime.

Twitter: @lVendemiale

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