Tasse sulle imprese più basse di almeno tre punti (e in Bulgaria si arriva al 15% in meno). E salari che sono meno di un terzo rispetto alle medie dell’Europa occidentale. Il tutto rimanendo all’interno del mercato unico. Al di là dei presunti incentivi illeciti concessi dalla Slovacchia alla Embraco, sono tutti qui i motivi per cui una multinazionale industriale con impianti in Italia ha convenienza a spostarsi nei Paesi entrati nell’Unione dopo il 2004. Come ha deciso di fare l’azienda controllata da Whirlpool, che trasferirà la produzione di compressori per frigoriferi dalla provincia di Torino a Spišská Nová Ves, nella regione di Košice. In mancanza di una legge nazionale che penalizzi chi leva le tende dopo aver beneficiato di fondi pubblici – Embraco negli anni scorsi ha ricevuto finanziamenti dalla regione Piemonte – licenziare e andarsene comporta di fatto una serie di vantaggi. Ben superiori, evidentemente, ai costi messi in conto per il “trasloco” e per eventuali risarcimenti ai dipendenti licenziati, che il gruppo stima in 80 milioni di euro. “Il costo del lavoro è determinato dal livello di sviluppo di un Paese”, commenta parlando con l’AdnKronos Fabiano Schivardi, docente di Economia alla Luiss Guido Carli. “Competere su quello è sbagliato, noi dobbiamo competere sulla produttività“.

Salari minimi sotto i 500 euro. E “buon rapporto qualità/prezzo” – In Bulgaria, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica ceca, Romania, Ungheria, Polonia e Slovacchia, rileva l’Eurostat, il salario minimo nazionale è inferiore all’equivalente di 500 euro al mese. Si va dai 235 euro minimi riconosciuti ai lavoratori bulgari ai 574 dei polacchi, passando per i 480 degli sloveni. Più costosi solo gli sloveni, che per legge non possono guadagnare meno di 842 euro al mese. I 2.300 dipendenti dello stabilimento slovacco di Embraco nel 2017 hanno percepito in media poco più di 960 euro al mese. A gennaio l’azienda ha però firmato un accordo con i sindacati che riconosce aumenti medi di 700 euro l’anno e introduce la tredicesima e la quattordicesima. Del resto, sottolinea l’ultimo rapporto Investing in Central Europe della società di consulenza Deloitte, “l’appeal di questi mercati non è legato solo ai bassi salari. Gli investitori godono di un buon rapporto qualità-prezzo nel costo del lavoro perché la maggior parte delle aziende straniere concorda sul fatto che la qualità dei lavoratori è elevata (…). Inoltre mentre in Cina e altri mercati emergenti i salari continuano ad aumentare, il tipo di competenze, la vicinanza e la prossimità culturale aumentano l’attrattività del centro Europa”.

Livelli di istruzione più alti che in Italia – Quegli stipendi fanno il paio, infatti, con livelli di istruzione della forza lavoro che non hanno nulla da invidiare a quelli dei lavoratori italiani. Anzi. Secondo l’Ufficio statistico dell’Unione europea, nella Penisola il 36% della popolazione tra i 25 e i 54 anni ha un livello di istruzione basso e il 44% vanta un titolo di scuola superiore. Ecco, nella Slovacchia del premier Robert Fico solo il 7% si è fermato alle scuole medie e il 69% ha un diploma. In Romania le percentuali sono rispettivamente del 21 e del 59%, in Repubblica ceca del 5% e del 69%, in Estonia del 10,6% e del 49,6%…. Dati, ovviamente, molto influenzati dalla demografia: l’età media in questi Paesi è poco sopra i 40 anni, mentre in Italia ha superato i 45. Questo spiega, in parte, anche la maggior quota di laureati: in Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia più del 30% dei giovani tra i 30 e i 34 anni ha una laurea e in Estonia, Polonia, Slovenia e Lettonia la percentuale supera il 40%. In Italia è al 26%. 

Le tasse sulle imprese? Tra il 9 e il 21% – Il contesto economico e fiscale, poi, è decisamente favorevole. Tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale crescono a ritmi ben superiori rispetto ai fondatori dell’Unione: l’anno scorso il pil slovacco è salito del 3,4%, quello sloveno del 4,9%, quello della Romania addirittura del 6,7%. Contro il +2,4% medio della Ue e il +1,4% dell’Italia. L’imposta sui redditi delle società, equivalente della nostra Ires che lo scorso anno è scesa al 24%, si ferma al 10% in Bulgaria. L’Ungheria di Viktor Orban l’anno scorso ha ridotto l’aliquota dal 19 al 9%. Repubblica ceca e Polonia restano ferme al 19%, Lituania e Lettonia al 15 per cento, la Slovenia al 17%. La Romania ha lasciato l’aliquota al 16%, ma in compenso dal gennaio di quest’anno ha ridotto dal 16 al 10% la flat tax sui redditi. La Slovacchia si è limitata a una riduzione dell’1%: sui redditi da impresa lo Stato chiede ora il 21%, l’aliquota più alta dell’area, pari alla nuova corporate tax introdotta da Donald Trump negli Stati Uniti. Bratislava in compenso offre un “credito fiscale” che consente alle imprese con sede nella Repubblica slovacca che ampliano un insediamento esistente o ne avviano uno nuovo di non pagare le tasse per un periodo fino a 10 anni.
Una misura che riassume bene la competitività delle economie dell’est Europa è il cuneo fiscale, cioè la differenza tra quanto il datore di lavoro sborsa e quanto finisce nelle tasche del dipendente. In Italia secondo l’Ocse il cuneo fiscale medio è pari al 47,8%, il quinto più alto tra i Paesi sviluppati. In Repubblica ceca si ferma al 43%, in Slovenia al 42,7%, in Lettonia al 42,6. Seguono Slovacchia a quota 41,5% ed Estonia al 38,9%. I fondi europei, in tutto questo, c’entrano poco.

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