“Glielo avevo sempre assicurato che avrei rispettato la sua volontà: per me era un modo di restituirgli un po’ di quella dignità che il suo corpo impazzito gli toglieva ogni santo giorno rendendolo dipendente dai farmaci e dagli altri, straziato dai dolori, inchiodato dentro un letto”. La voce è quella di Valeria Imbrogno, fidanzata di Fabiano Antoniani, il dj Fabo che il 27 febbraio 2017 ha scelto il suicidio assistito nella clinica della Dignitas, in Svizzera. Anche lì come negli ultimi 25 anni, al suo fianco c’era lei, che ripercorre la loro storia in Prometto di perderti (Baldini&Castoldi, con Simona Voglino Levy. Prefazione di Roberto Saviano).

Racconta la sua “vita più bella del mondo”, fatta di droghe e sregolatezza, di lavori in giacca e cravatta che non poteva sopportare. Del rapporto difficile col padre, dei loro sogni di una vita insieme. Dalla casa sul lago fino al desiderio di lasciare Milano per trasferirsi a Goa in India, dove hanno passato cinque anni. Una vita sentimentale fatta di alti e bassi, di piccoli tradimenti e riavvicinamenti inevitabili, di risate e di un temperamento indomabile, stroncato da un incidente d’auto due anni e otto mesi prima della sua morte. Da allora rimane cieco e tetraplegico, sdraiato o al massimo in carrozzina, attaccato a macchinari dai quali dipendeva. Alimentato con un sondino, alleviato dalla morfina e dai farmaci. Con gli occhi vuoti e fissi nel vuoto ad assistere passivo a quella che per lui non era più vita. Sarebbe stata sopportabile se almeno non avesse perso la vista. E invece è rimasto solo il buio, sempre uguale a se stesso.

Fabiano, parlando con Giulio Golia delle Iene, definiva Valeria “il mio angelo custode”, la sua interprete, quella che poteva intercettare pensieri e volontà. Anche l’ultima, quella finale, che glielo avrebbe portato via. Valeria, abituata a combattere anche per passione: due volte campionessa italiana di pugilato, campionessa del mondo pro di kickboxing, bronzo agli europei di boxe 2006 con la Nazionale femminile, vincitrice del titolo Europeo Ebu. Psicologa specializzata in criminologia, oltre alla vita con Fabo, nel libro racconta anche il suicidio del padre che quando Fabiano era già paralizzato si è sparato un colpo al cuore. “Ecco, Fabiano per me è la vita: perché al contrario di mio padre, che la sua l’ha buttata nel parcheggio di un tirassegno senza spiegarmi il perché, lui l’ha amata. Da morire. Fino alla fine”.

A fargliela amare anche in quelle condizioni è lei. Se per qualche giorno si allontana per respirare, Fabo si lascia andare. Senza di lei i dolori diventano più forti e il bisogno di morfina pure. Valeria vuole restituirgli la loro vita di prima: si avventura con lui in un viaggio improbabile a Bombay, in un paese che non è attrezzato per una persona nelle sue condizioni, per un’iniezione da 11mila euro di staminali. Sembra che qualche risultato possa darlo: Fabo dice di vedere delle macchie blu e muove flebilmente il polso, ma la cura è insostenibile. Quei soldi Valeria li raccoglie via crowdfunding, dopo essersi informata sulle possibili cure sperimentali. Tutte smontate dai medici, ma a cui lei rimane aggrappata con la speranza che ha in corpo.

Valeria prova a farlo tornare a una nuova normalità fatta di uscite – faticosissime, a partire dall’ascensore di casa, dove la carrozzina deve essere smontata e con macchinari d’obbligo al seguito -, del concerto a Monza di Paul Kalkbrenner, dei piccoli rituali da innamorati che riaffiorano nella quotidianità. Del contatto fisico quando si accuccia nel letto di fianco a lui. Si ingegna da pragmatica dell’amore per una seconda vita in un mondo dove la disabilità taglia i rapporti con l’esterno, dove chi ritieni amico poi si dilegua nel nulla, dove comunicare è imbarazzante perché a quei tempi interminabili e a quel labiale nessuno ci è abituato. Dove servono sempre una stanza ventilata per prevenire le piaghe da decubito, un catetere attaccato, cerotti di morfina e valigie di medicinali per affrontare un viaggio. E dove in quel buio totale, dove tutto è nero e senza speranza, gli occhi di Valeria non sono più abbastanza per dare un senso alla propria vita.

Allora basta, primavera 2016. Fabo le chiede di prendere contatti con la Dignitas, di capire quali siano le procedure per il suicidio assistito. Perché quella non è più vita. Dopo tanta ricerca trovano un notaio italiano per depositare il testamento biologico, ancora non previsto dalla legge, e con quello ci sono tutti i documenti per ottenere il “semaforo verde” dalla Svizzera. Arriva a casa sotto forma di una lettera, ora può partire. Lo fa dopo il suo 40° compleanno e quello della mamma di Valeria, perché aveva promesso di esserci. Parte in macchina per Zurigo con Marco Cappato, presidente dell’Associazione Luca Coscioni (e marito di Simona Voglino Levy), al loro fianco da quando Valeria gli aveva scritto via mail il 31 maggio 2016 per chiedergli informazioni sul suicidio assistito.

Fabo potrebbe finire la propria vita anche nel suo letto, con la sedazione profonda e lo stop alle terapie che lo tengono al mondo. Dopo qualche giorno morirebbe di fame. Ma lui vuole fare della sua via per la libertà una battaglia politica e pubblica, con un messaggio a Sergio Mattarella a cui però il destinatario non ha mai risposto. La fine della speranza nella sua storia coincide anche con la fine del dolore. Avviene in Svizzera, in un prefabbricato ordinato, pulito e accogliente. Fuori un laghetto artificiale con un fenicottero finto e le Alpi intorno. Fino all’ultimo Marco e Valeria gli ripetono che se vuole tornare a casa basta dirlo e si rientra a Milano. Ma lui è convinto, vuole fare in fretta e uscire dalla sua gabbia di dolore. Schiaccia con la bocca un pulsante, tiene la madre e la fidanzata per mano. Dopo dieci minuti se ne va. La storia di Fabo finisce qui, ma le ultime pagine del libro sono una lettera di Valeria, che è felice di averlo aiutato “ad essere libero da quelle catene. Da quell’inferno”. E la vita va avanti.

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