C’era una volta Matteo Renzi il rottamatore. Prometteva di mandare in pensione l’intera classe dirigente italiana, di smontare questo Paese pezzo dopo pezzo, di rinnovare i riti opachi e paludati della politica. In una parola, di disintermediare ogni aspetto della relazione tra potere e cittadino: dalla comunicazione alla burocrazia. La sua rivoluzione partiva dalla forma, che in politica coincide quasi sempre con la sostanza. Quasi ovvio che nella costruzione della sua narrazione puntasse tutto sui nuovi media, in special modo su Twitter: il social della velocità e dell’azzeramento di distanza tra chi emette il messaggio e chi riceve. E tale è stata l’identificazione del segretario del Pd con questa nuova modalità di relazione con i cittadini che dai suoi tweet sono nati alcuni tormentoni che hanno segnato il corso della legislatura che si chiude: da #enricostaisereno a #lavoltabuona.

Osservando invece oggi la sua campagna elettorale dal canale Social Recap, nel metodo già esposto in un precedente articolo, ho spesso l’impressione di essere davanti a una persona completamente diversa. Nonostante Renzi possa contare su un seguito di follower immensamente più alto rispetto a quello dei suoi competitor (ben 3,3 milioni a dispetto, per dire, dei 643mila di Salvini, dei 277mila di Di Maio, degli appena 22 mila di Berlusconi) in vista del 4 marzo sta utilizzando Twitter poco e in modo prudente. Dal 28 dicembre, giorno di scioglimento delle Camere, a giovedì 15 febbraio, Renzi ha pubblicato in tutto 150 tweet: meno di Giorgia Meloni (156 tweet nello stesso periodo), di Emma Bonino (225), di Carlo Calenda (351) e di Laura Boldrini (457); molto meno di Matteo Salvini (719) e di Silvio Berlusconi (744). Non che i suoi post non “ingaggino” l’attenzione e l’approvazione dei follower, anzi: guardando ad esempio al numero dei retweet ottenuti nel periodo considerato, Renzi è secondo solo a Salvini, che come detto ha però usato molto di più il mezzo. Tuttavia, guardando al contenuto suoi post, specie a quelli dei momenti chiave di questa campagna elettorale, è percettibile anche una cautela piuttosto inconsueta.

Oggi, infatti, raramente i tweet dell’account di Renzi esauriscono quanto hanno da dire nei 280 caratteri disponibili. Singolare, per un politico che da presidente del Consiglio scandiva i tempi delle conferenze stampa istituzionali proprio a colpi di tweet (e in quel momento peraltro, il social di Jack Dorsey di caratteri da digitare ne metteva a disposizione solo 140, non 280). Avversari come Salvini e Meloni oggi lanciano ogni giorno tweet che mirano dritti alla pancia dell’elettorato, battendo sempre sugli stessi temi, immigrazione, sicurezza, Europa: a loro, per posizionarsi nella mente degli elettori, gli attuali 280 caratteri di Twitter bastano. I tweet di Renzi, invece, contengono quasi sempre dei link che rimandano a Facebook o Youtube: piattaforme social dove, attraverso le parole e le dirette live, può ragionare più a lungo ed esporre le sue proposte in misura più estesa. Un tempo semplificare era la sua ricetta, oggi è la trappola da cui scappare: lo è il 3 febbraio, quando Renzi in sostanza rinuncia a Twitter per commentare la tentata strage di Luca Traini e invita il follower a connettersi a Facebook per leggere la sua posizione; lo è durante il videoforum a Repubblica il 5 febbraio, quando, parlando di evasione fiscale, il suo staff inserisce in un tweet il link al pdf del programma; lo è nel “#matteorisponde” di quattro giorni dopo, un format nato su Twitter e fatto migrare stavolta da Renzi su Facebook e su Youtube.

Per farsi un’idea della distanza siderale di tutto questo dall’immagine che Renzi dava di sé tramite i tweet solo quattro anni fa, basta leggere questo passaggio del libro #Arrivo arrivo. La corsa di @matteorenzi da Twitter a Palazzo Chigi, firmato da Matteo Grandi e Roberto Tallei e dedicato proprio al rapporto del segretario Pd con questo social media. “È senz’altro il linguaggio Twitter quello che contraddistingue questa fase politica in termini di comunicazione”, scrivevano gli autori nel 2014. “Al punto che ormai ogni tweet del Matteo nazionale viene sistematicamente amplificato, ribattuto dalle agenzie, ripreso dalle trasmissioni di approfondimento, commentato e sviscerato fino all’inverosimile”, proseguono. “Il tutto mentre i canali all news sparano ‘ultim’ora’ rilanciando in tempo reale i tweet di Renzi, ormai consacrato novello profeta alle prese, cinguettio dopo cinguettio, con una sorta di Vangelo contemporaneo”.

Che cosa è successo a Matteo Renzi in questi quattro anni? Di tutto. È diventato presidente del Consiglio, ha avuto questo Paese in pugno, ha perso rovinosamente un referendum costituzionale su cui aveva puntato ogni cosa, ha subito la scissione di una parte del suo partito. La metamorfosi nel suo rapporto con Twitter ci descrive un leader che oggi, per rinsaldare le fila dei suoi elettori, punta su piattaforme social che gli offrano l’opportunità delle argomentazioni articolate e complesse. Luoghi della rete dove possa trovare quella lentezza del ragionamento e quei toni pacati del discorso pubblico che, indirettamente o meno, la sua rivoluzione politico-mediatica voleva abbattere. Se dopo aver visto il tempo politico di Matteo Renzi il rottamatore vedremo quello di Matteo Renzi il restauratore, lo sapremo la notte del 4 marzo.

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