Guillermo Del Toro presidente. La 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia ha scelto. Per l’edizione che si svolgerà dal 29 agosto all’8 settembre 2018, il regista messicano, Leone d’Oro 2017 per The shape of water sarà il presidente della giuria che assegnerà l’ambito premio festivaliero tra i lungometraggi in anteprima mondiale. La scelta del direttore del Festival, Alberto Barbera. è qualcosa di più di un cortese favore ricambiato. L’annuncio, infatti, arriva a poche settimane dalla notte degli Oscar dove The shape of water è candidato a ben 13 statuette. Altamente probabile che il film di Del Toro ne porterà a casa almeno una mezza dozzina. Oscar più, Oscar meno, questo sarebbe un trionfo anche per il trampolino tardo estivo di Venezia in perenne agonia di glamour internazionale.

La lista è lunga (la caterva di Oscar per Gravity e La La Land o per il miglior film con Birdman e Spotlight) ma Venezia sembra fare sempre centro e superare i blasonati Toronto, Telluride e Cannes. Detto questo, la carriera di Guillermo Del Toro è garanzia di qualità e creatività. A guardarlo da vicino nel coccolare quel Leone d’Oro vinto pochi mesi fa al Lido era come vedere un bambino estasiato da un nuovo e amato giocattolo. Il rapporto empatico che intrattiene con le storie e i personaggi dei suoi film suscita un sentimento di umana sincerità da far commuovere. Tanto c’è del Del Toro omaccione corpulento e migrante messicano in terra statunitense nell’alterità raccontata in The shape of water. Tra il mostro protagonista, la ragazza muta che lo ama, l’amico omosessuale e la collega afroamericana, inseriti tutti nel fluttuante e magico plot, siamo di fronte ad una sorta di summa della tolleranza verso il “diverso”, una quadratura del cerchio etica e poetica che Del Toro non aveva probabilmente mai raggiunto così in profondità.

Dieci film in venticinque anni di carriera, dal primissimo gustoso e imperfetto Cronos nel 1993 arrivando ad un monumentale fantasy gotico e storico come Il Labirinto del Fauno nel 2006, Del Toro ha come reso più “familiari” mostri, insetti e deformità fisico-corporee inglobando e superando la lezione più estetizzante di David Cronenberg, posizionandosi su un approccio più ludico e avventuroso nella messa in scena e meno intellettualoide nei sottotesti e nei richiami filosofici. Perché Del Toro ama letteralmente i suoi mostri. Sarà per la lunga pratica al make-up, ambito in cui fin da giovanissimo ha iniziato a plasmare concretamente mostri per sé e altri colleghi, inserendosi nel lungo apprendistato tecnico nel cinema hollywoodiano.

Legame osmotico tra creatore e creature che trova il suo apice sia nel protagonista di Hellboy, esibito con peculiare, indimenticabile tono scherzoso e appassionato, che le grandi saghe dei supereroi contemporanee nemmeno si sognano; sia in quella sintesi tra fiducia e repulsione, tra positività e terrore, che protagonisti umani e spettatori provano verso la creatura risolutiva presente di continuo ne Il Labirinto del Fauno. Se proprio dovessimo trovare qualche piccola ruga nel discorso cinematografico di Del Toro azzardiamo che Crimson Peak non è proprio il suo film più riuscito; mentre l’elemento ludico, con cui si è comunque destreggiato in Pacific Rim tra la ricostruzione di robot alieni kaiju e mecha, sia rimasto troppo impigliato nelle maglie di un nerdismo spinto fino alle soglie dell’adolescenza. Ad ogni modo tanta è l’attesa per la sua versione dark di Pinocchio. Su Imdb.com campeggia già un manifesto che ha dell’incredibile: una faccia tonda di legno con un lungo naso su sfondo nerissimo.

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