I tatuaggi di trenta anni di galera sulla schiena di Bruno Banchero resistono come una trincea ai graffi del tempo. Quando parla della sua vita, sprecata nelle celle del carcere cagliaritano del Buon cammino, Bruno riesce quasi a imprigionare le lacrime anche quando evoca i parenti che non ha potuto vedere neanche in punto di morte.

I tatuaggi che coprono il torso di Joe Perrino, invece, ricordano i criminali russi di Nicolaj Lilin, specie quando tira di boxe come un trentenne. Perrino racconta che in carcere un “infame” aveva chiesto ai compagni di cella di tatuargli sulla schiena una Madonna, ma, siccome “se l’era cantata”, venne punito: quando si rialzò dalla branda si scoprì, inciso sulla schiena, un enorme ca**o. Se si girasse un remake sardo di Fuga da New York, ad esempio “Fuga da Porto Scuso”, Perrino avrebbe il fisique du role per interpretare la versione cagliaritana di Jena Pliski.

La galera non sembra aver piegato neppure Andrea Venturi che per protestare contro le guardie ingoiava lamette. Racconta come farsi rispettare in cella con la stessa efficacia di Edward Bunker in Educazione di una canaglia, e spiega che anche il più grosso, il più violento, quello che ti ha pestato di fronte a tutti, prima o poi dovrà andare a dormire… Massimo Selis, che rubava auto da distruggere in gare suicide come James Dean, fece anche lo scafista fra Brindisi e Valona, e quando in seguito era riuscito a rifarsi una vita e trovarsi un lavoro onesto in raffineria, lo perse perché i suoi genitori non avevano smesso di delinquere.

Lo ha salvato dalla disperazione Gesuino Banchero, il patriarca del gruppo, uno che iniziò a indurirsi sopportando lo scudiscio del padre e poi lo sguardo dei vicini quando cominciò, come dice lui, a “guadagnare extra”. Gesuino è comunque uno che ha sbagliato secolo perché sia quando emerge dall’acqua che quando attraversa i mercati sembra appena sceso da un galeoni di bucanieri.

Girato fra l’ex-carcere del Buon cammino e il mare di Cagliari, Il clan dei Ricciai è l’ultimo lavoro del film maker sardo Pietro Mereu e racconta la vita – e il riscatto – di un gruppo di ex-detenuti che oggi campano pescando ricci di mare nei mesi più freddi e più duri dell’anno. Quando fendono le onde con le mute nere addosso sembrano un commando della legione straniera e quando parlano, tagliando teste di pesce o bevendo “filu e ferru” su una barca, confermano ancora una volta che i sardi sono, insieme alle etnie dei Balcani, l’ultimo grande popolo di narratori rimasto in Europa.

Malgrado alcuni difetti, come l’uso gratuito del drone e alcune occasioni mancate – ad esempio la sequenza troppo breve di Massimo che fa le gimcane con un’auto da corsa o l’assenza narrativa del mare (che diventa alla fine il vero “Buon Cammino”) – Il clan dei Ricciai è una storia formidabile che Rai3 dovrebbe trasmettere, specie adesso che cerca di risorgere dalle rovine della gestione bignardo-renziana. Certo, un testo ben scritto avrebbe aiutato il racconto e avrebbe risposto alle molte domande che suscitano certi scenari – come il porto, il quartiere Castello e l’ex-carcere del Buon cammino – ma si sa che i giovani cineasti sono terrorizzati dal “rischio” della voce narrante e quindi “si affidano“ al materiale, cioè alle interviste, rischiando di esserne travolti.

Rinchiuso per sei mesi in un nuraghe e sottoposto a un’overdose di film jugoslavi e di testi americani, anche Pietro Mereu potrebbe essere rieducato (come i suoi simpaticissimi galeotti) e iniziare la retta via che porta dal reportage al documentario.

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