Fuori da Gaza, di Selma Daggagh (traduzione di Barbara Benini, Il Sirente), è un romanzo veloce, spigliato, che riesce a raccontare le energie distorte e le frustrazioni quotidiane del popolo palestinese attraverso un intreccio semplice e incisivo. Mentre l’esercito israeliano sta bombardano Gaza, Rashid, inebetito dalla canna che si è appena fumato – Gloria, la sua pianta di marijuana, è probabilmente il suo unico orgoglio – riflette sulla borsa di studio che ha vinto per trasferirsi a Londra. Sua sorella gemella Iman spende la sua vita, al contrario, in un centro culturale, cercando di allontanarne gli islamici che la corteggiano per attuare attentati devastanti. L’azione si sposta poi nella capitale del Regno Unito, dove i ragazzi si ritroveranno a fare una vita da sradicati, utilizzati come scimmie ammaestrate dagli attivisti radical chic, sbeffeggiati e umiliati dall’antiterrorismo terrorizzante per tornarsene a Gaza e riprendere l’ordinaria e folle quotidianità di una città imprigionata.

Fuori da Gaza è divertente e molto duro. Le coincidenze, sempre più pressanti a mano a mano che il romanzo si evolve, non infastidiscono la lettura e trovano un proprio significato nei capitoli finali, in un crescendo di tensione e di snodi narrativi utilizzati in modo inconsueto. Quello che emerge è il desiderio, il sogno di essere lontani da tutto: “Lui ne era fuori. Un balzo, un altro e poi un altro ancora e, visto che non vola, ora sta saltando sopra il mare, il Mare Bianco, Al Bahr Al Abyad, il Mediterraneo. Così blu e vivo, con pesci e delfini che guizzano, che si lanciano come lui, su, in alto nel cielo, fuori da tutto e lontano da lì”.

Sulla via di Berlino. La marcia, dello scrittore siriano Youssed Wakkas (Cosmo Iannone Editore), è un’allegoria struggente e dolorosa del percorso fisico e morale che molti uomini e donne sradicati dalla propria terra sono costretti a seguire. Leggendo le pagine del libro ci si rende immediatamente conto della forte e originale ironia mescolata a scene di iperrealismo che contrastano felicemente con l’atmosfera volutamente antirealistica del testo.

Sulla via di Berlino è un romanzo non-romanzo. I personaggi mutano, si trasformano a mano a mano che le storie vissute si plasmano, a loro volta, in qualcosa di inedito e accidentale. È un viaggio attraverso il dolore personale e collettivo di chi abita il Medioriente, un viaggio tra il fascino di un mondo antico, ormai divenuto fiaba, e l’inferno di una nuova esistenza che porta verso ospedali psichiatrici, prostituzione, campi di battaglia, pellegrinaggi circolari: “Nel terzo giorno della guerra, arrivò in paese l’avanguardia delle tribù degli zingari, fuggiti dal loro accampamento sulla riva del Lago Masàda. Erano stremati dalla fatica e dallo spavento. Gesticolando e ammiccando, raccontavano episodi incredibili di cui erano stati testimoni oculari. I saggi parlavano e le donne piagnucolavano, dimostrando con calde lacrime l’orrore del loro esodo che sembrava accaduto in quello stesso giorno, ma in realtà, nessuna mente umana portava una data precisa di quella tragedia remota (…) in ogni caso, anche loro erano uomini in marcia, come noi. E gli uomini, secondo la Sacra Scrittura, quando si mettono in marcia, significa che stanno cercando qualcosa, o semplicemente vorrebbero raggiungere un obiettivo preciso”.

Yousef Wakkas è nato in Siria nel 1955 e immigrato in Italia nel 1982, diventando in breve tempo una delle firme più interessanti della scrittura migrante del nostro Paese. Più volte è stato tra i vincitori del premio letterario Eks & Tra. Ha pubblicato tre raccolte di racconti e diversi romanzi. La sua storia di privazioni, redenzione e grande umanità ha ispirato una fiction televisiva realizzata da RaiTre e un documentario prodotto dalla Televisione svizzera italiana.

Articolo Precedente

Giornata della memoria, l’ossessione della razza per i nazisti e i loro emuli

next
Articolo Successivo

Giulio Andreotti assolto? La fake news smontata nel libro di Caselli e Lo Forte

next