Diciotto parole. “Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità“. Era il 9 novembre 2017, un anno e mezzo dopo il 3 febbraio 2016, quando il corpo sfigurato di Giulio Regeni veniva raccolto lungo l’autostrada tra il Cairo e Alessandria. Diciotto parole che il ministro degli Esteri Angelino Alfano pronunciava dopo 18 mesi di depistaggi, rassicurazioni pelose e fandonie evidenti da parte delle autorità egiziane, al culmine di un processo di normalizzazione dei rapporti tra le due sponde del Mediterraneo cui ha corrisposto una proporzionale mobilitazione della società civile il cui motore sono stati i genitori di Giulio. Con la loro dignità e il loro dolore composto, nelle rare apparizioni pubbliche Paola e Claudio hanno alimentato le nervature di una coscienza che è cresciuta nel tempo fino alle centinaia di eventi che oggi, a 2 anni da quel 25 gennaio 2016 in cui si persero le sue tracce, illumineranno di giallo il paese per chiedere “verità per Giulio“.

La realpolitik ha le sue ragioni, a cominciare da quelle economiche sulle quali si fonda il lavoro delle migliaia di persone impiegate nei settori coinvolti nell’interscambio tra Roma e il Cairo, che vale tra i 4 e i 5 miliardi di euro l’anno. E’ il primo fattore di cui la classe dirigente tiene conto, anche quando finge che la questione non sia sul tavolo: “Non accetteremo una verità artificiale e raccogliticcia. Non c’è business o realpolitik che tenga”, assicura l’allora premier Matteo Renzi durante la direzione Pd del 21 febbraio, nelle stesse ore in cui il ministero del Petrolio egiziano firma il contratto che accorda a Eni lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini di Zohr, il cui rinvenimento era stato annunciato il 30 agosto 2015 come “la più grande scoperta di gas mai effettuata in Egitto e nel mar Mediterraneo”, una delle maggiori “a livello mondiale“, con “un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas”.

9 novembre 2017 – Alfano, ministro degli Esteri: “Siamo convinti che Abdel Fatah Al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità”

Quarantotto ore dopo l’Italia che non si accontenta delle ragioni della diplomazia comincia a tingersi del giallo simbolo della battaglia: “Appendete striscioni, condividete le foto, per mio fratello, per il mondo intero”, scrive su Facebook il 23 febbraio Irene, sorella di Giulio, postando una foto del balcone di casa a Fiumicello dove campeggia uno striscione con la scritta “Verità per Giulio“. In poche ore raccolgono l’appello la Regione Puglia e i comuni di Napoli, Udine e Bari seguiti da decine di altre città. Flash mob, sit-in, cortei e fiaccolate illuminano un Paese che si scopre scioccato di fronte all’efferatezza di una morte che sembra non avere spiegazioni. E di fronte alla quale la ragion di Stato segue i suoi binari.

Lo scambio tra Renzi e Al Sisi del 16 marzo arriva a tranquillizzare le due sponde del Mediterraneo. “I nostri sforzi continueranno notte e giorno finché non avremo trovato la verità e finché non avremo arrestato i colpevoli”, assicura in un’intervista a La Repubblica il generale, definendo l’allora premier Renzi “un vero amico mio e dell’Egitto”. “Parole molto importanti che confermano il rapporto speciale tra Italia ed Egitto – replica poche ore più tardi il presidente del Consiglio – questa intervista in cui tra l’altro il presidente si rivolge direttamente alla famiglia Regeni mostra che ci sono evidenti e significativi passi in avanti. Ora tutti insieme troviamo i colpevoli”.

16 marzo 2016 – Al Sisi a La Repubblica: “Non ci fermeremo finché non avremo preso i colpevoli”. Renzi: “Evidenti e significativi passi avanti”

Roma vorrebbe anche, il Cairo non ha intenzione. La mattina del 25 marzo il profilo Facebook del ministero dell’Interno egiziano pubblica una foto del passaporto del ricercatore su un piatto d’argento, collegando la morte a un gruppo di 5 presunti “rapitori di stranieri” rimasti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia. Una fandonia di proporzioni tali che il procuratore capo di Roma  Giuseppe Pignatone, in quei giorni in Egitto con i suoi uomini, stronca senza mezzi termini parlando di “elementi non idonei per fare chiarezza sulla morte di Giulio Regeni”. Il Cairo bara e la rabbia cresce: “Era dai tempi del nazifascismo che un italiano non moriva dopo esser stato sottoposto alle torture“, scandisce il 29 marzo in Senato la signora Paola, parlando al fianco del marito Claudio del cadavere del figlio sfigurato. “Per far sì che il faro mediatico non si spenga – si legge sul sito di GiulioSiamoNoi, il comitato spontaneo nato dopo le loro parole – organizzeremo campagne e continueremo con il nostro impegno come presenza nel web e nei social con lo scopo di rendere quanto più possibile visibile il caso Regeni”.

Il governo si costerna, s’indigna e s’impegna ma la pantomima egiziana non cessa neanche quando, tra il 7 e l’8 aprile, i magistrati cairoti volano a Roma con l’impegno formulato a Pignatone dal procuratore generale Ahmed Nabil Sadeq di consegnare “tutta la documentazione richiesta dagli inquirenti italiani”. Ma al posto del promesso dossier di 2mila pagine, a piazzale Clodio arriva un fascicoletto di non più di 30 che non contiene risposte alle richieste dei pm italiani: nessun video delle telecamere della zona di Dokki dove Giulio sparì, non i tabulati delle persone indicate dagli investigatori italiani, non il verbale dell’autopsia. Lo schiaffo è tale che Roma non può fare finta di nulla: il capo della Farnesina Paolo Gentiloni richiama l’ambasciatore Maurizio Massari. E gli “sforzi” del Cairo si interrompono: l’11 aprile la Procura generale chiude l’inchiesta. “Il caso Regeni è ora una questione diplomatica”, fa trapelare Sadeq sulla tv filo-regime Al Youm 7.

8 aprile 2016 – Dopo l’ennesimo affronto degli investigatori egiziani, il capo della Farnesina Paolo Gentiloni richiama l’ambasciatore Maurizio Massari

La “questione diplomatica” è fatta di due realtà che corrono in parallelo, quello della politica e quello della magistratura. Mentre la seconda fa la spola tra Roma, il Cairo e Cambridge lottando contro le reticenze egiziane, la seconda recita a copione. Come il 20 aprile 2016, quando al Cairo volano gli alleati unofficial del premier: la morte di Regeni è “un episodio sfortunato“, spiega alla tv Sada El-Balad Lucio Barani. “Comprendiamo il rifiuto dell’Egitto di fornire milioni di tabulati – rassicura l’esponente di Ala, garanzia della tenuta della maggioranza culminata con i voti decisivi nelle 5 fiducie sul Rosatellum – siamo certi che il governo egiziano non può essere coinvolto in questo incidente“. Parole cui 4 giorni dopo rispondono i fatti di Milano. Il 24 aprile sotto la regia di Amnesty International piazza della Scala si tinge di giallo, “diventato un colore che ormai tutti in Italia – scandisce Paola Regeni – amici, parenti, conoscenti, associamo a Giulio”.

Sono in molti ora a chiedere verità. Il 18 aprile la mobilitazione sale sul volano della cultura pop e trova spazio sul red carpet dei David di Donatello, con l’hashtag #VeritaperGiulio che spunta su spille da giacca, braccialetti e adesivi sfoggiati dai protagonisti della serata, da Valerio Mastandrea fino a Claudio Santamaria a Luca Marinelli, da Giuliano Montaldo e Marco Giallini, da Anna Foglietta a Paola Cortellesi. Si replica a Cannes e a Venezia, con altre adesioni illustri, da Jasmine Trinca a Paolo Virzì passando per Ken Loach. E per il turno del weekend 23-25 aprile anche negli stadi di calcio dove tutte le squadre di serie A e B scendono in campo con lo striscione giallo.

Che diventa anche oggetto di bieco scontro politico persino in Friuli. Il 5 luglio quattro consiglieri della maggioranza di centrodestra al comune di Trieste chiedono la rimozione dello striscione dalla facciata del municipio in Piazza Unità. Due giorni dopo il sindaco Roberto Dipiazza li accontenta, il dibattito si riverbera a livello nazionale e i triestini scendono in piazza: “Ci fa ribrezzo – scandisce Pino Roveredo, scrittore vincitore del Premio Campiello 2005 – questo gioco politico che va a colpire sicuramente persone che hanno sofferto. Io penso ai genitori di Giulio Regeni: quel ragazzo è stato martoriato e massacrato. Stiamo cercando una verità, non stiamo cercando dei martiri”.

La mobilitazione non si ferma, e cresce. Il 25 gennaio 2017, la sera del primo anniversario della scomparsa, piazza Montecitorio è invasa di fiaccole. “Non mollate, non mollate per noi”, chiedono al telefono la mamma e il papà di Giulio, in collegamento telefonico con la Sapienza dove centinaia di manifesti gialli con il ritratto del ragazzo si sono alzati al cielo per chiedere “verità e giustizia” sulla sua morte, mentre sul palco artisti e intellettuali tra cui Erri De Luca continuano a chiedere verità. “L’ambasciatore italiano non deve tornare al Cairo: si darebbe un segnale di distensione che non è il caso di dare”, chiedono quel giorno Paola e Claudio.

Ma è tutto già deciso. La “resa confezionata ad arte“, come la definirà la famiglia, arriva il 14 agosto 2017, quando con gli italiani al mare Alfano, approdato alla Farnesina al posto di Gentiloni, getta una spugna mai davvero impugnata e annuncia che l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini, tenuto in caldo dalla nomina del 10 giugno 2016, farà ritorno al Cairo. I rapporti con l’Egitto sono ricuciti, i rapporti riprendono nonostante tutto, ma i fari dei media internazionali sono puntati sulla vicenda: neanche 24 ore più tardi il New York Times rivela che Regeni “fu ucciso dai servizi egiziani” e che l’Italia “ebbe le prove dagli Usa”. Il 21 agosto fonti di Washington confermano a La Stampa: “Roma sapeva”.

14 agosto 2017 – Con gli italiani al mare, il governo rimanda l’ambasciatore al Cairo. La famiglia di Giulio: “Resa confezionata ad arte”

Roma protesta, ma non si scompone: quella lasciata dalla vicenda Regeni è una “grave ferita per le nostre coscienze” ma “l’Egitto è partner ineludibile dell’Italia”, dice in uno slancio di glaciale realismo il capo della diplomazia il 4 settembre alle Commissioni Esteri di Camera e Senato. Il resto è storia degli ultimi mesi: i pm di Roma focalizzano l’attenzione su Maha Abdelrahman, docente di Cambridge responsabile della ricerca di Giulio, che fin dai giorni successivi alla scomparsa era stata poco collaborativa, e il governo ha buon gioco a spostare l’attenzione sulla prof nell’ultimo tentativo di lasciare in controluce le responsabilità del regime di Al Sisi.

In controluce questa sera saranno i volti delle migliaia di persone che scenderanno in strada per evitare che sul ricercatore di Fiumicello cali il silenzio. Alle 19.41, ora in cui il 25 gennaio 2016 Giulio fu visto per l’ultima volta a Giza, migliaia di candele gialle illumineranno le piazze più importanti di decine di città: a Roma l’appuntamento è in piazza Montecitorio, lì dove le istituzioni possano sentire. “In questo secondo anniversario di lutto e di domande che la famiglia Regeni fa da 24 mesi senza ottenere risposte – condensa in poche parole Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia – è fondamentale non consegnare Giulio alla memoria, rinunciando a chiedere la verità”.

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