Di Velia Addonizio*

Secondo gli ultimi dati del 2017 sulla povertà in Italia, oggi sono 1 milione e 619mila le famiglie residenti, per un totale di 4 milioni e 742mila individui, che vivono in condizione di povertà assoluta, cioè legata a necessità fisiologiche di base (il fabbisogno nutrizionale minimo, la disponibilità di beni e servizi essenziali per la sopravvivenza).

Nel 2016 è aumentata l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con tre o più figli minori, così come è aumentata fra i minori, arrivando a coinvolgere 1 milione e 292mila nel 2016. La povertà relativa, legata alle difficoltà economiche in rapporto al livello medio di vita, risulta stabile e riguarda il 10,6% delle famiglie; è più diffusa nei casi di 4 componenti o 5 componenti e colpisce maggiormente le famiglie giovani, dove la persona di riferimento è under 35, rispetto al caso di un ultra sessantaquattrenne, restando elevata nei casi di disoccupati e di operai e assimilati.

La problematica della povertà è molto sentita già a livello internazionale, tanto che il patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 stabilisce il diritto alla “libertà dalla fame che includa una alimentazione, alloggio e vestiario adeguati” (art. 11), e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, prevede espressamente il diritto a una esistenza dignitosa per le persone che non dispongono di risorse sufficienti. Considerata la dimensione della povertà e i suoi riflessi sociali ed economici, vale la pena di riassumere le proposte che animano in campagna elettorale il dibattito sui mezzi di contrasto alla condizione di indigenza: si sente parlare, spesso confondendo i termini, di reddito di cittadinanza, di reddito minimo garantito, di reddito d’inclusione.

Il reddito di cittadinanza consiste in una erogazione monetaria, periodica, durante tutta la vita del beneficiario, attribuita indistintamente a tutti i cittadini e residenti, cumulabile con altri redditi, erogata sia ai lavoratori sia ai disoccupati: gli unici Paesi ad averlo adottato sono l’Alaska, che lo finanzia con un dividendo dei profitti prodotti dall’estrazione petrolifera ed energetica, e la Finlandia che lo ha introdotto nel gennaio 2017 a livello sperimentale per un periodo di due anni. Cosa diversa è il reddito minimo garantito, erogato solo chi è in età lavorativa e con una retribuzione inferiore a una determinata soglia ritenuta di povertà, ed eventualmente prende a riferimento il reddito del nucleo familiare.

I modelli di reddito minimo garantito in Europa (Germania, Francia, Gran Bretagna, Olanda) richiedono però l’attiva ricerca di un lavoro da parte del beneficiario. Il reddito di inclusione è stato introdotto nel nostro Paese dal D.Lgs. 147/2017 ed è entrato in vigore il 1 gennaio 2018; i beneficiari sono circa 1,8 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. L’importo d’aiuto va da un minimo di 190 euro per i singoli fino a un massimo di 485 euro al mese per le famiglie di 5 o più persone. Ad averne diritto sono le famiglie con un Isee non superiore a 6000 euro all’anno, un valore del patrimonio immobiliare non superiore a 20.000 euro e un valore del patrimonio mobiliare (depositi, conti correnti) non superiore a 10mila euro (ridotto a 8 mila euro per la coppia e a 6 mila euro per la persona sola). Il riconoscimento del reddito di inclusione è condizionato alla sottoscrizione del progetto finalizzato all’inclusione sociale e lavorativa a cui il componente della famiglia deve attenersi: le famiglie che non rispettano il progetto subiranno la decurtazione o decadenza dal reddito di inclusione 2018.

Inoltre, trattandosi di una misura a sostegno del reddito, il reddito di inclusione è incompatibile con la contemporanea fruizione da parte di qualsiasi componente il nucleo familiare della NASpI (indennità di disoccupazione). Diverso da tutti i precedenti e oggetto di grande dibattito è il salario minimo: mentre il reddito di cittadinanza, il reddito minimo garantito e il reddito d’inclusione sono forme di assistenza (indipendente dall’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato), il salario minimo è costituito dal limite minimo della paga oraria, giornaliera o mensile fissata per legge, che i datori di lavoro devono corrispondere ai propri lavoratori dipendenti. Nell’Unione europea, 22 stati su 28 hanno adottato normative sul salario minimo, mentre i restanti sei paesi (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia) demandano l’individuazione della paga-base alla contrattazione collettiva dei vari settori.

* Sono avvocato giuslavorista ed esercito a Milano, sempre pro lavoratori. Se potessi fare riferimento ad una citazione per presentarmi, riporterei il brano di J.K. Ingram, economista e poeta nato in Irlanda nel 1823, che si intitola Address on work and the workman (1880): “La prospettiva in cui gli economisti… considerano abitualmente la posizione del lavoratore è molto limitata e quindi è falsa. Si parla di lavoro come se si trattasse di un’entità indipendente, che si può scindere dalla persona del lavoratore. Esso viene trattato come una merce, come grano o cotone, mentre la componente umana, i bisogni umani, la natura umana ed i sentimenti umani vengono quasi completamente ignorati.”

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