di Pasquale Tridico e Walter Paternesi Meloni*

Il dibattito sul Pil potenziale si è recentemente spostato dal concetto teorico alle relative metodologie di stima. Se da un lato emerge una sostanziale uniformità nel considerare il Pil potenziale come il livello massimo di prodotto ottenibile dal pieno utilizzo delle risorse disponibili (lavoro e capitale) e coerente con un’inflazione stabile (Okun, 1962; Gordon, 1984), dall’altro le stime del tasso di disoccupazione strutturale (o meglio, di quel tasso di disoccupazione che non genera spirali inflazionistiche, il cosiddetto Nawru) proposte dalla Commissione europea per il calcolo del Pil potenziale sono risultate, sotto vari aspetti, metodologicamente discutibili.

Oltre che dal punto di vista scientifico, tali valutazioni sono state oggetto di un vivace dibattito politico, in quanto cruciali per l’attuazione della politica fiscale nei singoli paesi Ue, culminato in una lettera del governo italiano alle autorità europee in cui il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan le ha apertamente considerate penalizzanti per l’Italia. In particolare, il governo sostiene che adottando delle metodologie alternative per le stime del Pil potenziale ci sarebbero maggiori margini di flessibilità per un’espansione non inflazionistica della spesa pubblica, in quanto già dal 2015 l’Italia registrerebbe un pareggio di bilancio strutturale: essendo il deficit strutturale relativo a un Pil potenziale sottostimato per l’Italia (ovvero, a una distanza dal Pil effettivo troppo contenuta), attualmente ci sarebbe meno spazio per l’attuazione di politiche fiscali espansive da parte del governo.

Alla luce di questo dibattito, lo scopo di questa nota è quello di suggerire una manovra di politica economica che, partendo proprio da una revisione al rialzo del Pil potenziale italiano realizzabile tramite l’aumento del tasso di partecipazione alla forza lavoro, permetterebbe – almeno dal punto di vista statistico – di realizzare un deficit strutturale maggiore in termini assoluti ma non in termini di prodotto potenziale: tale misura risulterebbe, pertanto, perfettamente in linea con i trattati europei.

Per comprendere la misura proposta, è tuttavia necessario partire dal calcolo del prodotto potenziale, essenziale per il computo del saldo strutturale. Da qualche anno infatti, la Commissione europea fissa gli obiettivi di deficit di medio termine per i Paesi membri sulla base del cosiddetto deficit strutturale (piuttosto che sul vecchio concetto del deficit al 3%), calcolato in riferimento al Pil potenziale, e non in base a quello effettivo che in recessione è più basso: in sostanza, il deficit strutturale viene depurato dagli effetti del ciclo economico. Più precisamente, sui tavoli europei la partita della flessibilità si gioca, attualmente, sull’output gap (OG): si tratta della differenza tra prodotto effettivamente realizzato e prodotto potenziale, espresso in percentuale del potenziale: quanto maggiore è il Pil potenziale, tanto maggiore sarà l’output gap, e tanto maggiore sarà in termini assoluti il deficit strutturale consentito.

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* Dipartimento di Economia, Università Roma Tre

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