Uno strano destino sembra aver segnato la figura di Rory Gallagher, uno dei più grandi chitarristi che la storia della musica rock ricordi: celebrato nella sua terra (l’Irlanda) come fosse un re (in occasione della sua morte, quel fatidico 14 giugno 1995, ne diedero notizia commossi e sconcertati i tg e le radio nazionali, compresa la Bbc, che interruppero le consuete programmazioni, trasmettendo in diretta i funerali), scelto dal Melody Maker nel 1972 come il migliore chitarrista del mondo, stimato e ammirato dai suoi colleghi (volendo citarne alcuni, Jimi Hendrix, Eric Clapton, Gary Moore, Jimmy Page), seguito da un nutrito gruppo di fedelissimi sparsi in tutto il mondo, non conobbe tuttavia il successo del grande pubblico né pubblicò veri e propri capolavori (sebbene i suoi dischi con i Taste prima e da solista poi siano degli ottimi album).

Per quale motivo? Le ragioni sono esposte brillantemente nell’ottimo saggio Rory Gallagher – Il bluesman bianco con la camicia a quadri (Chinaski Edizioni, 2017) di Fabio Rossi, romano, classe 1961, già nota firma della webzine Metallized.it e autore anche di Quando il rock divenne musica colta: Storia del Prog (Chinaski Edizioni, 2015). Rory Gallagher era un uomo schivo, riservato, umile ma testardo (che sul palco si trasformava in una furia indomabile!), poco incline ai compromessi commerciali e aveva un’inspiegabile avversione per i 45 giri, i passaggi radiofonici e le sale di registrazione.

Era un artista unico, capace di spaziare dal blues all’hard rock, dal folk al jazz. Non fumatore e refrattario a qualsiasi droga o al sesso facile, solo negli ultimi anni, per sedare la sua crisi personale, si rifugiò nell’alcol e la pagò cara: dovette sottoporsi a un trapianto di fegato e morì poco dopo a soli 47 anni a causa delle complicazioni subentrate all’intervento. Amava più di ogni altra cosa la sua musica (il blues, che suonava con una classe e tecnica inarrivabili), la sua chitarra Fender Stratocaster (quando gli fu rubata, entrò in uno stato depressivo, riuscì poi a ritrovarla e continuò a suonarla per il resto della sua vita). L’unica cosa che contava per lui era suonare dal vivo e il contatto col pubblico. Incarnava pienamente il modo di essere tipico del proletario irlandese ed era lontano dalle lusinghe del music business.

Insomma, era l’antidivo per eccellenza. Inoltre, ebbe la sventura, al tempo della sua esperienza con i Taste (la straordinaria band rock-blues che lo portò al successo, immortalato nello storico live al Festival dell’Isola di Wight nel 1970), di essere finito nelle mani dello spregiudicato e avaro Eddie Kennedy, che non degnò la band di una paga e di una strumentazione adeguate. Va anche detto che nel corso della sua carriera Rory Gallagher è stato affiancato da bravi musicisti, ma mai all’altezza del suo straordinario talento. L’agile volumetto di Fabio Rossi, che vanta uno stile di scrittura appassionato, attento e coinvolgente, ha il merito di essere la prima biografia italiana dedicata al chitarrista e cantante irlandese e ne ricostruisce con scrupolo e dovizia di particolari la vita e la discografia (con ben 11 album in studio e 3 dal vivo, ossia gli splendidi Live! In Europe, Irish Tour ‘74 e Stage Struck), soffermandosi anche su alcuni particolari e aneddoti curiosi e avvincenti: tra questi, la collaborazione con il suo idolo Muddy Waters in London Muddy Waters Sessions (1972) e con Jerry Lee Lewis, con cui registrò il doppio album The Session…Recorded in London with Great Artists (1973); la partecipazione nel 1974 a un concerto di Jerry Lee Lewis a Los Angeles (che per paura di essere messo in ombra da John Lennon, presente tra il pubblico, uscì fuori di testa, apostrofando nel peggiore dei modi i Beatles); l’incontro nel 1975 con i Rolling Stones (alla ricerca di un sostituto di Mick Taylor), con i quali registrò due provini a Rotterdam, per poi abbandonare le session e partire per il suo programmato tour in Giappone.

Il libro è arricchito inoltre di bellissime foto a colori e si conclude con le testimonianze di alcuni colleghi musicisti (Eric Clapton, The Edge, Brian May, Gary Moore, Slash, Joe Bonamassa) e dei fan italiani, che hanno avuto l’opportunità di assistere ai suoi concerti incendiari (l’ultimo dei quali fu al Pistoia Blues Festival nel 1994). Un libro necessario, indispensabile, che colma finalmente un incomprensibile vuoto nella saggistica musicale nostrana e restituisce al genio di Cork il giusto e meritato riconoscimento.

(Cradle Rock, da Irish Tour ‘74)

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