“Non tutte le istituzioni funzionano come dovrebbero, Magistratura a Polizia Giudiziaria danno risposte non sempre adeguate. L’Avvocatura sta cercando la strada della specializzazione. I medici a volte ritengono che la violenza contro le donne non sia affare loro perché non è una malattia, le operatrici dei Centri ogni tanto si dimenticano delle leggi. Insomma c’è sempre da fare“. Il brano è tratto dal libro Crimini contro le donne (editore Franco Angeli) del giudice Fabio Roia, presidente di sezione presso il Tribunale di Milano e spiega le ragioni di un libro sulla violenza contro le donne. Sono ancora molti gli ostacoli che rallentano i cambiamenti culturali e sociali necessari a sradicare la violenza di genere e si manifestano nei luoghi istituzionali con cattive pratiche, processi che ri-vittimizzano le donne, confusione tra conflitto e violenza, diffidenza e misoginia. E ancora “resiste un movimento di negazione del fenomeno fatto di pregiudizi, stereotipi, operatori che non ci credono, che non conoscono le leggi e le dinamiche della violenza di relazione e che intervengono male creando ulteriori danni a chi ha sofferto e soffre”.

Volgendo uno sguardo al passato si può capire quanta strada è stata fatta. Nel capitolo Non è mai l’otto marzo, Roia ricorda come negli anni 90 fosse difficile occuparsi di violenza contro le donne. La prevenzione non era contemplata, gli strumenti legislativi erano inadeguati e al di fuori del movimento delle donne c’era ben poca consapevolezza del fenomeno, della trasversalità della violenza e infine, in Italia non esistevano statistiche.

Quella storia l’ho vissuta come attivista di un centro antiviolenza e quando nel 1999 ebbi l’occasione di ascoltare Fabio Roia ad un convegno che si svolse a Ravenna, tirai un sospiro di sollievo insieme alle mie compagne. Ci rendemmo conto che nell’universo delle toghe che percepivamo distante e talvolta, incapace di capire la complessità del fenomeno della violenza familiare, c’erano giudici che seguivano le situazioni di maltrattamento con grande empatia e attenzione. Una cosa mi fu chiara: le risposte le può dare solo chi sa ascoltare.

A Milano, racconta Fabio Roia, operava un gruppo di quattro magistrati che si occupava specificamente di violenza familiare (il pool famiglia costituito dal procuratore Giovanni Caizzi) e contrastava le violazioni dei diritti delle donne “facendo ricorso anche alla fantasia interpretativa degli istituti per proteggere le vittime nel rispetto dei diritti dell’accusato”. Grazie alla “flessibilità interpretativa delle leggi”, ad “alchimie tra codice di procedura penale e civile” (l’articolo 403 del codice civile che allontana i minori dalla famiglia per tutelarli raccordato con l’art 55 del codice di procedura penale che impone alla polizia giudiziaria di impedire conseguenze ulteriori dei reati) le donne con i propri figli venivano ospitate in strutture protette. Si colmavano vuoti legislativi che erano il sintomo di una afasia istituzionale sulla violenza maschile che esponeva le donne alle vessazioni del partner. In assenza di norme specifiche erano state pensate interpretazioni della legge per contrastare la violenza di chi, come quell’imputato interrogato nel 1992 a San Vittore, ignorava che fosse un reato picchiare la propria moglie.

Il divieto di dimora che impediva la permanenza in un determinato luogo, a persone accusate di condotte illegali, fu applicato ai casi di maltrattamenti: i pubblici ministeri del pool famiglia disponevano che il divieto venisse applicato non tanto ad un territorio vasto ma solo all’abitazione familiare della donna oggetto di violenza. Fu una brillante anticipazione della legge sulle “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari” (legge 154 del 2001). “Questa fase di creazione giudiziaria – scrive il giudice Roia – è servita a rompere la nebulosa che gravava sul fenomeno della botte in famiglia”.

Dopo una breve ricostruzione storica sull’evoluzione delle leggi contro la violenza nelle relazioni di intimità, Crimini contro le donne offre una guida a tutti o tutte coloro che possono incontrare, a vario titolo, donne che subiscono violenza spiegando quali sono oggi gli strumenti legislativi per tutelarne i diritti. Riconoscere e fermare la violenza, prevenire i femminicidi, realizzare interventi per i maltrattanti è un dovere perché le donne devono ottenere giustizia e la società deve averne coscienza.

@nadiesdaa

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