In Tunisia, il paese che dal 2011 è stato eretto a modello della transizione dopo la primavera araba, va in scena un nuovo gennaio di proteste. Ancora una volta le ragioni sono legate alle disastrose condizioni economiche del paese, che dalla caduta del dittatore Ben Ali non sono mai migliorate, anzi. Lasciando disattese le domande di pane e giustizia sociale gridate a gran voce durante la rivoluzione dei gelsomini. #fech-nestannew (cosa stiamo aspettando) è l’hashtag apparso sui muri di diverse città tunisine. Lo slogan sta dando il nome a un nuovo movimento che, assieme al Fronte popolare, il gruppo di opposizione più importante della Tunisia, ha richiamato la gente in piazza.

Il risultato degli scontri con la polizia degli ultimi tre giorni fornito dall’agenzia stampa tunisina TAP parla di un manifestante morto lunedì scorso nella cittadina di Tebourba e di 8 agenti di sicurezza feriti, mentre gli arresti sarebbero più di 260. Si manifesta a Thala, Feriana, Sbeitla Djerba (dove è stata attaccata una sinagoga), Nabeul, e Sidi Bouzid, la cittadina dove nel dicembre del 2010 l’ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco in protesta contro l’abuso di potere della autorità locali, dando così il via all’ondata di proteste che destituì Ben Ali dopo 24 anni di dittatura.

Ma è ancora troppo presto per dire se le manifestazioni si propagheranno sino a deflagrare in una nuova rivoluzione. Dal 2011 a oggi i tunisini sono scesi numerose volte in piazza. Solo nella prima parte del 2016 , in un gennaio altrettanto caldo, alcuni giovani disoccupati avevano ostacolato le attività di diverse compagnie petrolifere bloccandone il trasporto stradale. Il mese dopo il governatorato del Kef, nel nord-ovest del Paese, si era infiammato per la chiusura di una fabbrica di cavi elettrici di proprietà della società tedesca Coroplast, intenzionata a rilocalizzare le operazioni di produzione nella logisticamente meglio connessa Hammamet, lasciando a casa 430 lavoratori (in maggioranza donne). I disoccupati di Jendouba, sempre nel nord-ovest, avevano poi manifestato domandando a gran voce una soluzione per la cronica mancanza di opportunità di impiego nella zona.

L’economia, dunque, e la disoccupazione, che tra i giovani si attesta attorno al 38%, continuano a essere il filo conduttore delle proteste. La miccia che ha innescato questa nuova ondata di manifestazioni è il nuovo pacchetto di provvedimenti draconiani imposti al governo dal Fondo monetario dopo la concessione di un prestito ponte da 2,9 miliardi di dollari che ha evitato il default. La manovra finanziaria, entrata in vigore dal primo gennaio, ha imposto l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, dalla frutta e verdura sino alla benzina. Un’azione ritenuta necessaria dal governo per rispondere alle misure di ristrutturazione economica richieste dal Fmi, che nel 2016 ha accordato l’estensione per 4 anni degli aiuti chiedendo in cambio anche la riduzione dei dipendenti nel settore pubblico (che al momento rappresentano la metà della spesa pubblica tunisina). Nell’ultima manovra finanziaria il governo ha così ceduto aumentando le tasse e congelando le assunzioni. A farne le spese è stata anche la valuta locale, che al momento segna i minimi storici nei confronti dell’euro mentre l’inflazione è sopra il 6%.

La fallita ripresa economica tunisina ha tuttavia anche cause esogene: gli attentati del 2015 nella capitale e a Sousse hanno bloccato il settore turistico che, sino al 2011, rappresentava l’8% del prodotto interno lordo. A questo scenario si aggiungono il calo della produzione di fosfati e la gestione della crescente radicalizzazione, anch’essa legata alle disperate condizioni economiche. La Tunisia è, infatti, il paese ad aver fornito più foreign fighters allo Stato Islamico (le stime si aggirano tra le 4000 e le 6000 unità) e la questione dei combattenti di ritorno ha contributo a far ripiombare il paese in un clima di repressione.

Le tensioni sociali sono riaffiorate a intermittenza in questi 7 anni di transizione democratica, segnati da omicidi politici e numerosi cambi di governo ma anche dall’insediamento di una coalizione di governo, supportata da tecnocrati, che nel 2015 ha vinto il Premio Nobel per la Pace. Esecutivi che non hanno fatto piombare la Tunisia nel caos ma che, a detta degli analisti, non hanno neppure saputo dare una visione politica a un paese che necessitava di riforme economiche radicali in grado di far sviluppare le aree rurali, quelle più povere del paese.

“Lo scenario è molto incerto. Dal 2011 a oggi abbiamo visto dieici governi. Dopo gli assassini politici nel 2013, la maggio parte dei tunisini ha deciso per un voto laico e ha scelto Nidaa Tounis”, spiega Lina Ben Mhenni, attivista politica che attraverso il blog A Tunisian Girl ha raccontato i giorni della rivoluzione. “Ora Nidaa si è alleata con al-Nadha (il partito di ispirazione islamica già vincitore del primo round di elezioni libere dopo la rivoluzione) e la gente è confusa, è infastidita perché non vede un progetto politico. In più il governo continua a utilizzare l’approccio securitario per gestire qualsiasi questione ma non c’è alcun atteggiamento costruttivo”.

L’ultimo esecutivo di unità nazionale è stato votato nel 2016 e vede come premier Youssef Chached, un giovane tecnico di 40 anni. L’incarico è arrivato da Caid Essebsi, attuale presidente del partito secolare Nidaa Tounes ed ex ministro nell’era di Ben Ali che, giustificato dallo stato di emergenza indetto dopo gli attacchi del 2015, sta utilizzando l’esercito per proteggere le infrastrutture dagli scioperi e dalle proteste degli ultimi anni. Una strategia che ha il sapore di restaurazione e che, secondo molti analisti, va di pari passo con la legge di riconciliazione finanziaria – considerata un’amnistia per gli uomini del precedente dittatore – e con le attuali accuse di vandalismo fatte sui media dal portavoce del Ministero dell’Interno contro i manifestanti.

“Al momento non c’è un movimento così grande per poter fare il paragone con la rivoluzione e dire che queste proteste continueranno”, spiega Monia Ben Hamadi, direttrice editoriale di Inkifada, magazine indipendente tunisino. “Ciò che è certo è che il governo non ha una visione economica e segue solo quello che il Fondo Monetario Internazionale ha imposto. In queste condizioni la disoccupazione giovanile continuerà a salire, i privilegi dei pochi restano anche alla luce della legge di riconciliazione economica approvata alcuni mesi fa. Il messaggio della piazza è un messaggio politico, bisogna fare qualcosa, e il governo non può ridurre queste domande a un mero atto di vandalismo”.

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