Adesso che si torna a discutere in rete di free bleeding (sanguinamento libero), ovvero la moda di alcuni gruppi di donne che dicono No ad assorbenti e tamponi, lasciando che le mestruazioni fluiscano libere da condizionamento alcuno (fra i tanti articoli, quello de Il Venerdì di Repubblica, dicembre 2017, di Silvia Bencivelli), mi pare di attualità raccontarvi di un museo particolarissimo ideato a metà anni 90 da tal Harry Finley.

Prima, però, mi corre l’obbligo, per chi non avesse letto nulla in merito, di spiegare meglio cos’è il free bleeding, una pratica che ha origine da alcuni piccoli gruppi hippy degli anni 70 che teorizzavano e praticavano la mestruazione libera. Non se ne parlò più fino a quando Kiran Gandhi, batterista e studentessa ad Harvard, corse la maratona di Londra, il 26 aprile 2015, con le mestruazioni e senza alcun assorbente, teorizzando così, anche visivamente, con una macchia rossa sui calzoncini, la provocazione: “Ho corso per le mie sorelle che non hanno accesso a tamponi e per le sorelle che, malgrado crampi e dolori, li nascondono e fanno finta che non esistano. Ho corso per dire che il ciclo esiste e che lo superiamo ogni giorno”.

Ci sono anche artiste che utilizzano le mestruazioni per le proprie opere: Elone ha sparso per le strade di Karlsruhe (Germania) epigrafi contro la violenza sulle donne vergate su assorbenti mentre Joana Vasconcelos ha realizzato un lampadario con 14 mila tamponi interni. Solo per citare due casi. Del resto il tema, molto offuscato nei secoli da pregiudizi, vergogne e leggende metropolitane (la donna mestruata non fa montare la maionese, non può fare il bagno in mare, trasforma il vino in aceto, fa appassire i fiori se li tocca e altre stupidaggini), è una realtà femminile per circa 2500 giorni (4 o 5 giorni al mese) fino alla menopausa. Specialiste hanno messo in scena opere teatrali e scritto volumi in merito (da Corpi impuri, presentata Festival della Filosofia di Modena da Marinella Manicardi a Questo è il mio sangue, volume della francese Élise Thiébaut, teorica della “rivoluzione mestruale” a Mestruazioni di Alexandra Pope).

Ed eccoci al signor Harry Finley, 76 anni, americano del New Jersey, papà militare e fratello a West Point, che, nel suo seminterrato newyorkese ha allestito, dal 1994 al 1998, il Museum of menstruation, uno dei musei più curiosi al mondo (oggi è divenuto il sito web mum.org) a base di scatole piene di tamponi, maxi assorbenti, biancheria intima mestruale, antidolorifici, pubblicità, opuscoli sulle mestruazioni, forniture per la pulizia: più di cinquemila pezzi. Il New York Times, nel 1998, lo ha definito il sito di Finley “strano, divertente e ben studiato (creato da un uomo) sulla storia delle mestruazioni e raccontato dalle donne di tutto il mondo”.

Ma le chicche del Mum sono gli elementi storicizzati: “Una volta – dice Finley – le donne utilizzavano panni di stoffa che dovevano essere lavati e usati ancora e ancora. I primi cuscinetti usa e getta commercialmente disponibili negli Usa furono prodotti da Johnson&Johnson nel 1896, ma non erano popolari perché non potevano essere pubblicizzati” per motivi di pruderie. I veri e propri tamponi risalgono alla fine degli anni 20, ma quelli fatti in casa restarono per anni i più diffusi. C’erano gli ingombranti grembiuli mestruali da indossare sotto i vestiti e si usava persino il rischioso acido picrico che, durante la prima guerra mondiale, serviva per i proiettili di artiglieria. Un video di The Huffington Post porta alla luce un significativo parallelismo lessicale: il termine tabù deriva dal polinesiano tapua che vuol dire anche sangue mestruale. Del resto, basti pensare come in varie religioni la donna mestruata sia considerata “impura” (ad esempio, nell’islam, le donne devono purificarsi con un bagno prima di poter pregare). Sarà un caso?

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