La morte di Ferdinando Imposimato mi ha colpito come un pugno in faccia. Ci sono persone che non pensi possano morire mai e lui era una di queste. Magistrato coraggioso, hanno ricordato tutti elencando le infinite indagini che hanno accompagnato la sua lunga vita dedicata alla giustizia, ma anche diffidente, suscettibile e talvolta iroso nel difendere le sue tesi e così prolifico da continuare a scrivere libri sui tanti misteri di cui si era occupato con l’ostinazione di chi non si rassegna a cercare la verità, andando oltre a quella sancita dalle sentenze che proprio lui aveva contribuito a scrivere. La verità giudiziaria, diceva, è fondata sulle prove, su ciò che è possibile accertare, sui responsabili che è possibile arrestare, ma poi ci sono lande inaccessibili di cui si conosce l’esistenza ma non si riescono a raggiungere. Misteri, segreti di fronte ai quali non si è mai arreso.

Non sapevo che aveva 81 anni, anzi non mi sono mai chiesta quanti anni avesse, perché chiederselo se era attivo e dinamico come un quarantenne? Come quando lo incontravo, mentre correva con la toga svolazzante per i corridoi di piazzale Clodio, alto e ancora biondo, quel sorriso beffardo e disincantato da napoletano che tutto sa e sdrammatizza. Negli ultimi anni ci eravamo ritrovati e lo avevo scoperto disponibile come sempre, impegnato fino all’ultimo nelle tante battaglie della sua vita. Difficile descrivere il suo inesauribile attivismo: aveva esordito come poliziotto e ha finito con l’essere non soltanto scrittore, ma anche protagonista di film a lui dedicati, dedito al contempo all’impegno politico, sociale e negli ultimi anni anche umanitario nell’ambito di quelle organizzazioni internazionali che hanno saputo sfruttare la sua competenza e la sua versatilità.

Nel 1986, dopo aver lasciato la magistratura per le continue minacce della mafia, è stato consulente legale delle Nazioni Unite nella lotta alla droga, su incarico dell’Onu ha anche addestrato giudici colombiani, boliviani, peruviani ed ecuadoriani contro il narcotraffico. Ma questo fa parte della biografia ufficiale, io conosco un Imposimato privato che continuava a coltivare la sua ansia di giustizia per ogni dove. Talmente giovane da avvicinarsi al Movimento 5 Stelle, che apprezzava per la sua battaglia contro la corruzione, correndo perfino il rischio di essere eletto Capo dello Stato. La passione per la politica l’aveva scoperta  nel 1987, quando era stato eletto senatore nelle liste del Pci. Una scelta maturata in silenzio, in omaggio al fratello Franco ucciso quattro anni prima dalla camorra, forse per il suo impegno sindacale nella fabbrica Face Standard di Maddaloni, cittadina del casertano dove erano nati.

Il tarlo segreto che lo logorava era che il fratello fosse morto a causa sua, come mi confidò un giorno. Una vendetta per quel processo sulla Banda della Magliana, che aveva chiuso nel 1981 mandando alla sbarra alti prelati, finanzieri, usurai, malavitosi e camorristi. Anche se per avere giustizia, proprio lui, ha dovuto aspettare quasi venti anni: soltanto nel 2001 con il processo Spartacus è stata accertata la matrice mafiosa dell’agguato. Una vicenda cui il regista Francesco Rosi dedicò il film “I tre fratelli”, in cui si affronta il tema ricorrente della sua vita: l’incolmabile distanza tra verità processuale e verità reale.

Imposimato non è stato soltanto il giudice istruttore del Caso Moro, come tutti sanno, o quello dell’attentato al Papa come pochi ricordano. Si era anche occupato di Michele Sindona, aveva istruito il processo sul crac bancario, ed erano cominciate le minacce mafiose che nel 1986 lo hanno convinto a lasciare la toga per incarichi non meno pericolosi. Per qualche anno ci siamo persi vista, ma poi ci siamo ritrovati. Uno dei nostri argomenti preferiti era proprio il processo Moro e i suoi irresolubili enigmi. A lui si deve la scoperta della prigione in via Montalcini e questo ha indissolubilmente legato il suo nome a quell’inchiesta. La più difficile, la meno fortunata. “Ma dai Ferdinando, come si fa a credere che Moro sia stato tenuto per 55 giorni in un appartamento di periferia, come si fa a credere che sia stato ammazzato in quel garage accessibile a tutti, in quel box talmente stretto che se si apre il portellone della Renault non si può chiudere la saracinesca?”. Non si arrabbiava, anzi sorrideva alle mie parole, mi gratificava: “Anche tu sei una combattente della giustizia e non ti rassegni mai”.

Sappiamo oggi che quell’inchiesta fu costruita sulle bugie di Morucci, su quegli “aggiustamenti” della verità che hanno relegato il delitto Moro nel recinto di ciò che “è dicibile”. Peggio che Morucci fu addestrato dal Sisde a schivare gli argomenti più imbarazzanti, quel servizio civile con cui intratteneva rapporti anche in giovane età. Ma non è vero che Imposimato si sia mai arreso a questa verità parziale. “Il terrorismo va combattuto senza mezzi termini e senza incertezze, ma anche smascherando coloro che si giovano del terrorismo con il pretesto di combatterlo. L’Europa e gli Stati Uniti non si illudano. Fingendo di non vedere e di non capire, prima o poi dovranno pagare un conto molto salato”, ha scritto e detto molte volte. Negli ultimi tempi si riferiva all’islamismo, ma non ha mai ignorato che la stessa ricetta fosse applicabile al terrorismo nostrano. Nel 2008 nel libro Doveva morire. Chi ha ucciso Aldo Moro, si è inoltrato in quella palude di segreti che il processo aveva ignorato perché “i tempi non erano maturi” come avrebbe detto Buscetta. Più di recente, nel saggio su I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, il magistrato si è inoltrato su un terreno ancora più inclinato che conduce al ruolo di Gladio e dove cita le testimonianze di alcuni militari come Ladu e Puddu.

Imboccata questa strada non si è più fermato: nel 2011 ha annunciato che avrebbe denunciato il governo degli Stati Uniti perché a conoscenza degli imminenti attentati dell’11 settembre e non li avrebbe evitati. Qualcuno ha cominciato a pensare che era andato un po’ fuori di testa, invece  era un discorso che maturava da tempo. Nel libro più recente La Repubblica delle stragi impunite,  fa risalire la strategia stragista a Portella delle Ginestre e la conclude con la strage di via D’Amelio, affrontando il ruolo dei servizi segreti stranieri e italiani, delle agenzie internazionali, quei think tank, stile Hiperion, dove opposti interessi si incontrano per decidere le sorti del mondo anche all’insaputa dei governi. Davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul Caso Moro, un paio di anni fa, la sua rabbia è esplosa quando ha scoperto che la Digos era a conoscenza di un’informativa del Sismi su Giorgio Conforto, l’agente doppio del Kgb (in ottimi rapporti con l’Ufficio Affari riservati) in casa del quale furono arrestati proprio Faranda e Morucci. “Nessuno me ne ha mai parlato e pensare che erano proprio queste le notizie che a me interessavano di più”.

Caro Ferdinando, te ne sei andato quando avevi ancora molte cose da fare, altri incarichi da assumere, segreti da ricostruire, libri da scrivere. Poco prima di Natale qualcuno ti ha incontrato dalle parti di piazza Zanardelli, barricato nel tuo immancabile loden grigio, con un pacco di giornali sotto il braccio, diretto verso ponte Cavour, quello che porta al Palazzaccio. Quella Casa Madre dove eri tornato, dopo tanti anni in giro per il mondo e dove, rientrato nei ranghi giudiziari, hai concluso la tua carriera di magistrato come Presidente onorario aggiunto della Cassazione.  In definitiva l’incarico che hai amato di più.

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