“Fino ad ora i fratelli Savi non erano mai stati nello stesso carcere e devo dire che questa cosa non mi piace affatto, anzi mi preoccupa. Per noi parenti delle vittime è l’ennesima ‘botta’, che arriva dopo i permessi premio concessi all’altro fratello, Alberto, e a Marino Occhipinti”. È  sorpresa e sconfortata Rosanna Zecchi, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della banda della Uno Bianca e moglie della prima vittima, nell’apprendere la notizia che da qualche mese Fabio e Roberto Savi, condannati all’ergastolo come il fratello Alberto, si trovano entrambi nel carcere di Bollate (Milano). Una polemica che arriva il giorno della cerimonia commemorativa del 27° anniversario dell’eccidio al Pilastro dei tre carabinieri (Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitilini), uccisi dai killer della banda la sera del 4 gennaio del 1991. “Sono perplessa, non me lo aspettavo, ma se la giustizia lo permette dobbiamo prenderne atto – continua Zecchi -. Certo è un dolore continuo, che si rinnova, sapere che queste persone colpevoli di terribili omicidi possano avere addirittura la possibilità di incontrarsi“. “I tre militari, poco più che ventenni – ricorda in una nota il Comando provinciale dei carabinieri di Bologna – , morirono falciati dal piombo degli assassini che, dopo l’agguato, non esitarono ad avvicinarsi e a finirli con un colpo alla nuca”.

Sono vicini, dunque, due dei killer della banda che tra il 1987 e il 1994 uccise 24 persone e ne ferì 102 tra Bologna, la Romagna e le Marche. La banda era composta dai fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e da Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Ciascuno dei fratelli Savi sta scontando l’ergastolo. I due fratelli sono nello stesso carcere da qualche mese. “Da quello che mi risulta non sono nella stessa sezione” dice stringatamente l’avvocato Copelli. Se i due fratelli volessero incontrarsi, la richiesta di colloquio dovrà essere valutata dal direttore del carcere. Nel 2016 Fabio Savi aveva intrapreso uno sciopero della fame nella casa circondariale di Uta (Cagliari) in cui era detenuto per essere trasferito. Aveva chiesto, infatti, un pc per poter scrivere libri, quindi senza collegamento internet, e di poter svolgere un lavoro per mantenersi, tutte cose che si possono ottenere in una casa di reclusione e non in una casa circondariale come quella del Cagliaritano.

“Questa è una ferita ancora aperta – dice Zecchi -Prima di tutto per coloro che vennero feriti, che quelle ferite le hanno ancora addosso. La banda sparava con pallottole che si espandevano nel corpo e molti portano ancora i residui di quelle pallottole e, dico la verità, stanno veramente male”. E poi, dice Zecchi, “loro non si sono mai pentiti”. Oltre ai 102 feriti, continua la presidente dell’associazione vittime della Uno Bianca, “ci sono quei 24 morti. La banda ci ha causato un danno enorme. E non è che passi. Si va avanti perché dobbiamo andare avanti, per i nostri figli e per i nostri nipoti, ma dire che si vada avanti bene questo no, non possiamo dirlo”. Il dolore, racconta Zecchi, “c’è sempre, è un dolore continuo”.

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