Cinema

Tutti i soldi del mondo, zero regia, zero scrittura, zero recitazione e zero pathos

Tanto rumore per nulla. Ma nulla di nulla. L'opera, diretta da Ridley Scott, la pellicola che vede la cancellazione in tutta fretta delle sequenze recitate del “molestatore” Kevin Spacey rimpiazzate da Christopher Plummer, il film dove si racconta della tirchieria del miliardario Jean Paul Getty di fronte al rapimento del nipote Paul a Roma nel 1973 da parte della ‘Ndrangheta, ecco questo film non esiste

di Davide Turrini

Tanto rumore per nulla. Ma nulla di nulla. Tutti i soldi del mondo, diretto da Ridley Scott, il film che vede la cancellazione in tutta fretta delle sequenze recitate del “molestatore” Kevin Spacey rimpiazzate da Christopher Plummer, il film dove si racconta della tirchieria del miliardario Jean Paul Getty di fronte al rapimento del nipote Paul a Roma nel 1973 da parte della ‘Ndrangheta, ecco questo film non esiste. Zero regia, zero scrittura, zero recitazione, zero pathos. Non sappiamo quale sia il motivo per il quale Ridley Scott si ostini ancora a girare film. Sono anni che i suoi lavori, ad eccezione di The Counselor nel 2013 (ma lì c’era il romanzo di Cormac McCarthy) non risultano più né carne, né pesce, e nemmeno seitan. Tutti i soldi del mondo non è quindi un fine prodotto d’intrattenimento (lo era un pochetto The Martian ma senza esagerare), nemmeno un pacioso e fracassone blockbuster di grana grossa (vogliamo parlare di una cosetta tipo Exodus?), ancora meno una firma d’autore (Un’ottima annata si accomodi fuori, prego). Autore che peraltro Scott non è mai stato. Nemmeno nei primi gloriosi anni di carriera con Blade Runner, Alien e I duellanti. La sua è sempre stata un’estetica fine a se stessa, superficialmente patinata. Un marchio di fabbrica figurativamente affascinante e ammaliante, sicuramente equilibrato nel mescolare performance di valore nel cast artistico e qualche buon contributo tecnico. Ma se non riesumiamo i primissimi film appena citati della sua filmografia non c’è mai stato un lavoro di scavo, di psicologie, di approfondimento oltre la superficie della trama.

Scott è fatto così. Pensa di avere la scienza cinematografica infusa, il segreto della ricetta della ciambella col buco. Due scenette concitate, un paio di lucine abbassate, un filtro seppiato anni settanta a Roma, e buona la prima. Con Tutti i soldi del mondo pecca poi fin dal principio di una superbia di scrittura un tanto al chilo da rifilare agli allocchi. La sceneggiatura sgangherata di David Scarpa è zeppa di luoghi comuni sull’italianità criminale, di sciatteria nei caratteri, di claudicanti siparietti per la suspense che provocano un bizzarro e noioso effetto loop della tragedia. Tutti i soldi del mondo presenta quindi la messa in scena di infinite variazioni di due sequenze due: la madre (Michelle Williams) del ragazzo rapito che risponde al telefono con il rapitore calabro (è il francese Roman Duris con camiciola aperta sul petto!); e quella della madre del ragazzo rapito che cerca udienza in Inghilterra a casa del suocero ricco sfondato (il famoso Plummer che ha rigirato le scene interpretate da Spacey). Fateci caso. A circa un’ora e mezza (il film dura due ore e tredici) si è finiti impantanati in un gorgo seriale reiterato di questi momenti che si accumulano come nemmeno fossimo in una provocazione alla Warhol. Il ritmo del film così si impalla e si chiude bottega.

Dicevamo comunque di questi temi forti, di questa drammaturgia che piomba dall’alto e tutti zitti. Ecco, in Tutti i soldi del mondo oltre l’orrore (e qui ci vorrebbe l’emoticon modello Urlo di Munch) della violenza generata dai calabresi, che tagliano l’aglio sottile come Paul Sorvino in Quei bravi ragazzi e poi mozzano a freddo un orecchio, dovrebbe emergere la tirchieria modello Paperon de Paperoni del vecchio Getty. Uno che a forza di insistere, e dopo l’arrivo dell’orecchio mozzato del nipote alla famiglia, decide che semplicemente “presterà” al ragazzo una cifra deducibile dalle tasse (poco meno di tre milioni di dollari dell’epoca) che poi Paul dovrà restituire con gli interessi. Allora, centrare questo tono del discorso, questa doppiezza psicologica dell’uomo più ricco del mondo, avrebbe almeno valso mezza operazione. Invece, Scarpa sintetizza sempre tutto in frasi ad effetto, aneddotica buona per una commedia anni cinquanta, rinunciando all’affondo, all’amalgama contraddittoria della malvagità di casa Getty con quella coeva dei truci rapitori. A far registrare ulteriori tracolli ci si mette poi Scott stesso con uno sguardo nullo dietro la macchina da presa. Presenza alimentare svogliata, esplorazione facilona di uno spazio malamente ricostruito tra le patetiche atmosfere da Padrino tra i rapitori, e ad una qualsiasi ricostruzione posticcia nel ricreare brandelli di storia recente dell’Italia come nei film di Giuseppe Ferrara. Provate a segnarvi un’inquadratura decente, qualcosa di memorabile per cui valga la pena “guardare” il film, e vi troverete con il taccuino intonso. L’apoteosi tra i due punti debolissimi appena analizzati è comunque la sequenza in cui l’emissario di Getty, l’ex agente CIA interpretato da uno svogliato Mark Wahlberg, incontra un gruppo di Brigate Rosse che in una stanza più buia della grotta del rapito, udite udite, ha un ritratto di Lenin in salotto e un drappo appeso sul divano con scritto “BRIGATE ROSSE”.

Inutile allora trovare un senso, anche solo nelle dinamiche di genere thriller, a cui il countdown sul rapimento di Paul Getty potrebbe portare. Perché quando ci si arena in ripetuti dettagli splatter dell’orecchio del rapito mentre viene tagliato, qualcosa che è pari al raccapriccio dell’uccisione di Giannini in Hannibal con le viscere di fuori, si capisce che in fondo la programmatica trascuratezza dell’intera operazione, questo tirare via in fretta, accatastare sequenze sempre identiche, è un po’ lo scopo di questo film. Il capitolo attori arriva poi a chiudere la pratica. Perché qui nessuno ha la minima voglia di prendere sul serio ciò che fa. Pensate a Stacy Martin costretta a fare da segretaria di Getty/Plummer senza avere un primo piano che uno. A Walhberg che attraversa il film come un fantasma ovviamente a fianco di una Williams da filodrammatica. Perfino le comparse italiane come Nicolas Vaporidis bandito calabro, sembrano cadute da Marte, magari proprio dall’orto di Matt Damon del film di Scott. C’è poi l’affaire Spacey che teniamo per ultimo. A conti fatti la produzione ha rigirato davvero parecchia roba a nemmeno sei settimane dall’uscita ufficiale. Diciamo un buon terzo di film. Plummer rimpiazza Spacey con una motivazione ufficiale siffatta: “Non appena siamo venuti a conoscenza di quelle terribili accuse, solo sei settimane prima dalla data di uscita prevista nelle sale, abbiamo capito che non saremmo andati avanti con il film così com’era. In tutta coscienza non potevamo lasciare che quelle denunce rimanessero inascoltate”.

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