Oggi la nostra Costituzione compie 70 anni. Qual è il suo stato di salute? A che punto stanno i diritti che quel testo prevede? E quanto se ne tiene davvero conto, in politica ma non solo? Lo racconta questa analisi di Marco Palombi e Silvia Truzzi pubblicata su FqMillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, nel numero attualmente in edicola. E’ il nostro regalo ai lettori per il compleanno della Carta che tiene insieme la nostra Repubblica. O almeno prova a farlo.

Il 1° gennaio 2018 la Costituzione italiana compie settant’anni e non è un caso che, come si fa con le vecchie signore, la si lasci ormai parlare senza darle retta. E dire che governare, legiferare, produrre e vivere contro la Carta è – o forse, ormai, sarebbe – la più grave forma di illegalità possibile per la Repubblica: è per evitare di ammettere questo che il pulviscolo di individui e interessi che un tempo era una comunità nazionale deve considerare la Costituzione solo come una vecchia signora un po’ svanita, persa dietro le sue fantasie di gioventù, inadatta al mondo presente, un mondo che si vuole, nei fatti, post-costituzionale. Basta leggerla per sapere che è così: diritto al lavoro, giustizia sociale, solidarietà, responsabilità sociale dell’impresa. Questa non è, dunque, una celebrazione, ma il breve riassunto di un tradimento.

Un vecchio discorso e un programma per oggi
Bisogna chiedersi: a cosa serve questo «pezzo di carta, che se lo lascio cadere, non si muove»? Parole di Piero Calamandrei, uno dei padri di quel “pezzo di carta”, che così lo spiegò agli studenti milanesi in un giorno del 1955, partendo dal secondo comma dell’articolo 3 («il più importante di tutti»): È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dice Calamandrei: «Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo 1 – L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica (…). E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere».

E ancora: «È stato detto giustamente che le costituzioni sono anche delle polemiche. Questa polemica, di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica (…). Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. (…) Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani».

È un programma, questa Carta che compie settant’anni, il nostro programma di italiani. E una protesta. E anche una battaglia, quella per la sua piena attuazione. È dovere della politica e, in primo luogo, di governo e Parlamento, essere l’anima di quel programma, di quella protesta, di quella battaglia. La nostra Costituzione, d’altra parte, non è né un insieme di articoli (139 in tutto per i curiosi), né una generica esposizione di principi: è un tutto organico che, mentre disegna il senso del nostro stare insieme, indica e presuppone le politiche – soprattutto economiche – che lo rendano possibile. Il sistema delineato è definibile, all’ingrosso, keynesiano, cioè ispirato al pensiero dell’economista John Maynard Keynes. Gustavo Zagrebelsky lo ha descritto così nel suo Fondata sul lavoro (Einaudi): «La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro». Eppure quel “dal lavoro alle politiche” è ciò che è accaduto in Italia (e non solo) nei cosiddetti “gloriosi trenta”, vale a dire i trent’anni seguiti alla Seconda guerra mondiale.

Riassumendo grossolanamente: intervento dello Stato nell’economia e nell’intermediazione del risparmio (pensioni e assicurazione sanitaria e anti-infortunistica); limitazioni alla libertà di movimento dei capitali e controllo del credito; Banca centrale dipendente dal governo e, dunque, finanziamento pubblico del deficit. Furono anni di crescita dei salari, aumento dell’occupazione, basso deficit pubblico: quando il ministro Dc Beniamino Andreatta, all’inizio del 1981, decise il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia condannando il Paese a “vendersi” sul mercato, il debito pubblico era sotto al 58% del Pil e la spesa dello Stato rispetto al Prodotto attorno al 41%, inferiore alla gran parte dei Paesi europei. Anche questo, insieme alla Costituzione, conviene dimenticare sul comodo altare del mondo che è cambiato e non offre più certezze.

Il programma dei governi italiani dell’ultimo trentennio dunque non è più la Carta, ma la perenne “emergenza economica” che ha affossato i fondamentali dell’economia “costituzionale”, ma garantito la vendetta della rendita sul lavoro. Il programma degli ultimi cinque esecutivi, invece, è stato addirittura messo nero su bianco dalla Banca centrale europea nella sua lettera dell’estate 2011: privatizzazioni, liberalizzazioni, libertà di licenziamento (flessibilità), tagli a welfare e pensioni pubbliche da sostituire con assicurazioni private. In sostanza, la riduzione del ruolo dello Stato alle dimensioni di un amministratore di condominio e relativo appiattimento della società sulle esigenze dei famigerati “mercati”: non è un caso che i Trattati europei – ispirati a questa concezione minima del ruolo dello Stato – non facciano menzione di «diritto al lavoro» (il nostro articolo 4), ma basino la loro idea di società su due pilastri, la «stabilità dei prezzi» (inflazione bassa) e un’«economia sociale di mercato fortemente competitiva» (dove “sociale” è una spolverata di simpatia sulla ferocia del “fortemente competitiva”).

La carta anti-liberista
È merito recente di Luciano Barra Caracciolo, giurista e presidente di sezione del Consiglio di Stato, aver sottolineato nel suo La Costituzione nella Palude (Imprimatur) non solo come questa impostazione sia estranea all’orizzonte della Costituzione, ma come lo sia per esplicita scelta dei costituenti dei grandi partiti popolari (democristiani, socialisti, comunisti e non pochi a vario titolo “liberali”). Le posizioni che oggi diciamo mainstream e, nelle parole dei loro aedi, servono a rispondere alla nuova complessità del mondo (cioè alla globalizzazione intesa come fenomeno naturale, non politico), in realtà erano presenti nel dibattito anche alla fine dell’ultima Guerra mondiale e, anzi, all’epoca erano considerate già vecchie. Il loro campione, nell’Assemblea che scrisse la Costituzione, era Luigi Einaudi, economista e poi presidente della Repubblica: le sue proposte in materia economica furono rifiutate, la Carta nasce anti-liberista.

Così si rivolgeva con sottile quanto puntuta ironia «all’amico Einaudi» il presidente della «Commissione dei 75», Meuccio Ruini, già senatore del Regno d’Italia e sottosegretario di Vittorio Emanuele Orlando, nella seduta del 12 marzo 1947: «Gli economisti – i migliori – riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall’Ottocento, non regge più sul presupposto di un’economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di monopoli delle imprese private. Quando vedo i neo liberisti, come l’amico Einaudi, proporre una tale serie di interventi per assicurare la concorrenza che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: si avanza la forza storica del lavoro».

E il lavoro, insiste Ruini, va inteso «nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoro intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore in quanto lavoratore qualificato che organizza la produzione e non vive, senza lavorare, di monopoli e privilegi». Un occhio non distratto riconosce in queste parole che i costituenti rifiutarono non solo «la scienza dell’Ottocento» (il liberismo) ma anche quella nuova, la “terza via” che rinnovava quella visione occupando lo Stato e realizzando per via legislativa e ordinamentale il dominio della grande impresa privata (ricorda qualcosa?).
Giova ripeterlo dopo decenni in cui nessuno ascolta più la vecchia signora: il programma che la Costituzione affida agli italiani è preciso e non può essere, come accade, disatteso facendo finta di nulla. Nell’ottobre 1946, alla Costituente, il deputato Mario Cevolotto – ministro nei governi Bonomi, Parri e De Gasperi – lo descrive così: «Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la nazione secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività. Quindi intervento dello Stato nella produzione, intervento cui si arriva attraverso la garanzia del diritto al lavoro». E questo, dice, s’ha da fare senza «un ritorno al superato liberismo», né cedimenti alla «regolamentazione totalitaria dell’attività produttiva».

Che gli stessi costituenti lo interpretino come un programma è un fatto. Dice il comunista Renzo Laconi il 5 marzo 1947: «Noi non siamo in grado oggi di stabilire delle garanzie e delle sanzioni per la realizzazione di questi diritti, ma qualcosa possiamo fare: noi possiamo fare i principi, possiamo stabilire le direttive entro le quali dovrà orientarsi il legislatore di domani». Una direzione che vale anche in senso negativo. «Non si può negare in modo assoluto che un giorno le forze regressive possano avere la prevalenza. Noi abbiamo il dovere di immaginare anche il peggio», spiegò il socialista Gustavo Ghidini: «Ora fate l’ipotesi che la nostra rappresentanza fosse completamente eliminata e sedessero in questa Camera solo rappresentanti della Nazione aventi un orientamento regressivo e volessero formare una legge che contrastasse questi diritti al lavoro, li limitasse, li annullasse. La Corte costituzionale dovrebbe dichiararne l’incostituzionalità».

Il diktat della Bce
La sovranità appartiene al popolo, è scritto all’articolo 1. E il verbo “appartiene” non è scelto a caso, ci ha spiegato Lorenza Carlassare, ma «in contrapposizione ad “emana” che può assumere ben diversa valenza: dire che la sovranità emana dal popolo può anche implicare che essa parta dal popolo (che ne è all’origine) e se ne allontani per trasferirsi agli eletti. Dire invece che la sovranità appartiene al popolo non lascia spazio a interpretazioni pericolose». Sempre alla professoressa padovana dobbiamo questa citazione, risalente agli anni Cinquanta, del costituzionalista Carlo Esposito: «Il contenuto della democrazia non è che il popolo costituisca la fonte storica o ideale del potere, ma che abbia il potere. E che non abbia la nuda sovranità (che praticamente non è niente), ma l’esercizio della sovranità (che praticamente è tutto)… In un regime in cui fosse concesso ai cittadini il solo potere di votare, tali cittadini sarebbero schiavi per lunghi anni e (nella migliore delle ipotesi) liberi e sovrani nel solo giorno della libera scelta dei loro rappresentanti».

E qui veniamo all’introduzione quasi all’unanimità nel 2012 del nuovo articolo 81, quello sul cosiddetto “pareggio di bilancio”, che impedirebbe di fatto allo Stato qualunque politica economica: «Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes», scrisse allora Stefano Rodotà. E come avvenne questa “riforma” gentilmente richiesta dal Fiscal compact europeo? Lo ha raccontato il Guardasigilli Andrea Orlando alla festa del Fatto Quotidiano del settembre 2016: «Non fu il frutto di una discussione nel Paese, ma del fatto che a un certo punto la Bce – ora la brutalizzo – disse: “O mettete questa clausola nella Costituzione o chiudiamo i rubinetti e non ci sono gli stipendi alla fine del mese”. È una delle scelte di cui mi vergogno di più, penso che sia stato un errore e non tanto per il merito, che pure è contestabile, ma per il modo in cui ci si arrivò».

La sovranità è cosa impalpabile, ma decisiva, e in natura resta assai poco senza padrone: i costituenti lo sapevano e infatti hanno scritto l’articolo 11. Sì, è quello in cui l’Italia ripudia la guerra, ma anche quello in cui – ci ha ricordato Gustavo Zagrebelsky – «l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. La limitazione è prevista con l’obiettivo della pace e della giustizia tra le Nazioni, non per mettersi al servizio della finanza internazionale! L’obiettivo si è rovesciato: siamo in un momento in cui il potere economico ha sopravanzato il potere politico, ci si è alleato subordinandolo» chiosa Zagrebelsky. Ora ripensate alla minaccia della Bce sull’articolo 81 raccontata da Orlando e a una vecchia signora che compie settant’anni e che parla senza che nessuno le badi.

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