Aiutiamoli a casa loro? E perché non aiutarli a casa nostra? È quello che hanno pensato Ludovica e Alessandro – grafica lei, consulente per una società che lavora in campo agricolo-ambientale lui – l’anno scorso. Erano i tempi in cui, a Casale San Nicola – a due passi dall’Olgiata, frazione residenziale a nord di Roma dove vivono – avevano appena aperto un centro di accoglienza. “Purtroppo il quartiere non si è rivelato favorevole al centro ed è cominciato un periodo di proteste e di blocchi stradali”, racconta Alessandro. “Ci siamo detti che forse la cosa migliore era un’azione di segno diametralmente opposto: visto che la parte più rumorosa della zona si è espressa per cacciare le persone, noi abbiamo deciso di aprire la porta”. È così che tre mesi fa, con il passaparola e con il tramite dell’associazione Refugee Welcome (QUI il loro sito), network internazionale che anche in Italia, dal 2015, promuove l’accoglienza dei rifugiati in famiglia – è arrivato Yusuf in casa di Ludovica e Alessandro.

Non ha neanche 20 anni, viene dal Gambia e non aveva nessuna intenzione di lasciare il suo Paese. “Mio papà aveva due terreni. Il capo del villaggio aveva deciso di prenderne una parte, togliercela, per costruire una scuola e una moschea. Non avrebbero dato un altro terreno in cambio, e mio padre ha rifiutato. Allora il capo del villaggio gli ha detto che gli avrebbe dato un altro terreno, ma lontano dalla città. Ma non poteva funzionare, ha detto mio papà, perché si stava avvicinando la stagione delle piogge e c’erano ancora molti alberi da coltivare. Sono anche andati dalla polizia, che ha detto che potevano prendere il terreno dando in cambio un altro terreno. Mio padre non era d’accordo: alla fine hanno preso il terreno con la forza”. Dopo pochi mesi, il padre di Yusuf è morto. “E il capo del villaggio voleva prendere il resto delle terre. Io le ho vendute. Un giorno sono andato a cercare la legna e quando sono tornato a casa ho incontrato mia sorella che mi ha detto di non tornare a casa. Mia mamma mi ha dato un anello e mi ha detto di andare via. ‘Non tornare, altrimenti ti uccidono’, mi ha detto”.

È così che è cominciato il viaggio di Yusuf. “Sono andato in una rimessa, ho parlato con un uomo che aveva tanti autobus. Ho lavorato lì due giorni, poi mi ha detto: se vuoi diventare un controllore puoi farlo. Ho accettato. Siamo andati insieme in Mali, Burkina, fino al Niger. Ho lavorato lì tre mesi, poi il suo progetto è fallito e in Niger ho finito tutti i miei soldi”. Yusuf racconta di aver incontrato molte persone che gli hanno detto di andare in Libia, perché lì avrebbe trovato lavoro. “In Libia ho incontrato tantissimi problemi. Grazie a Dio”, racconta il ragazzo, “ho incontrato un uomo arabo che mi ha trattato come suo figlio. Vivevo a casa sua, lavoravo con lui e mi pagava. Un giorno mi ha mandato a comprare la benzina e dei ragazzi mi hanno rapito. Lui ha pagato il riscatto. Poi è successo di nuovo. Quando sono stato liberato la seconda volta, quell’uomo mi ha detto che dovevo andare via per salvarmi”. E Yusuf indietro non poteva tornare. “Mi ha detto: ‘Ci sono delle persone che vanno in Italia. Se vuoi posso pagare un barcone e puoi andare’. Ho paura, gli ho detto. ‘Vai via da qui altrimenti avrai problemi’, mi ha risposto. Ha pagato il barcone e sono venuto qui. Sono sbarcato a Catania”.

Ogni anno, centinaia di ragazzi, arrivati in Italia come minori soli, compiono 18 anni e sono costretti ad abbandonare i centri per minorenni. “Rischiano di essere nuovamente sradicati o di non avere un posto dove andare”, si legge sul sito di Refugee Welcome. “L’accoglienza in famiglia può essere una risposta ai loro bisogni: è una nuova modalità di cittadinanza attiva, che permette di aiutare questi ragazzi vulnerabili nel cammino verso l’autonomia e l’età adulta”

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