Un testimone giura di averlo visto correre e urlare, impaurito e solo, mentre il fuoco iniziava ad avvolgere la nave nel buio della notte. Raed Mohammad non aveva neanche 7 anni. Li avrebbe compiuti esattamente un mese dopo. Era sopravvissuto alla guerra in Siria, a un paio di viaggi della speranza attraverso la Turchia e poi verso l’isola di Lesbo. È morto nell’incendio del Norman Atlantic, il traghetto con oltre 500 persone a bordo andato a fuoco al largo delle coste albanesi il 28 dicembre 2014 mentre navigava verso Ancona. Una delle ultime foto scattate da papà Ahmad lo immortala su uno scoglio con il caschetto scapigliato e una felpa blu con un Minion.

La denuncia dello zio chirurgo, arrivato dalla Svizzera
Era con lui e il suo fratellino al porto di Igoumenitsa per tentare di imbarcarsi sulla motonave poi incendiatasi nel mar Adriatico, inghiottendo ufficialmente 29 persone. Nell’elenco c’è anche Raed, ma solo perché Ahmad, come ha raccontato a Ekathimerini, non riesce a salire, bloccato da un controllo di polizia, ma il bambino fugge venendo affidato a una coppia di arabi. Se anche suo padre fosse riuscito a entrare nel ventre del Norman Atlantic forse si sarebbero salvati o sarebbero morti entrambi e nessuno avrebbe mai saputo della loro tragica fine. Chissà a quanti migranti è toccata la stessa sorte, senza che alcuno sapesse che la loro scelta era caduta proprio su quel traghetto per percorrere l’ultimo tratto del viaggio verso l’Europa più accogliente. Invece Ahmad non parte e quando vede le immagini della nave in balia del fuoco e delle onde alte fino a 7 metri avvisa suo fratello Ismail, chirurgo nell’ospedale di Berna, in Svizzera. “Ho deciso di recarmi personalmente in Italia al fine di trovare i miei parenti scomparsi o quantomeno di avere notizie utili al loro rintraccio”, dice il medico davanti ai poliziotti di Bari il pomeriggio del 3 gennaio. Per aiutare le ricerche ha con sé solo quelle foto del nipote con il sorriso stampato in faccia e un Minion sulla felpa.

I passeggeri invisibili: “Mille euro a un trafficante, poi nascosti sotto il tir”
Raed però non c’è già più. I suoi resti non sono mai stati trovati, come quelli di altre 17 persone. E chissà quanti altri passeggeri “invisibili” avevano cercato fortuna aggrappati sotto i troppi camion imbarcati a Patrasso e Igoumenitsa dal personale di Anek Lines, la compagnia noleggiatrice del traghetto, prima di salpare verso Ancona. Che le cose siano andate proprio così, lo dimostrano i pochi oggetti personali rinvenuti accanto all’unico cadavere incenerito rintracciato nella stiva, che – secondo gli investigatori – lasciano intendere la nazionalità afgana dell’uomo. Ci sono anche le testimonianze dei clandestini sopravvissuti alla trappola di fuoco, secondo i periti causata dal “malfunzionamento di un rimorchio-frigo” che secondo le regole di navigazione avrebbe dovuto essere collegato alle spine elettriche. Nel 2014 Aziz Ebrahim aveva appena 15 anni. Davanti alla polizia di frontiera di Bari, dopo il salvataggio, racconta: “Sono partito clandestinamente dall’Afghanistan circa tre anni fa fino a raggiungere la città di Atene”. Da lì viaggia verso Salonicco e poi arriva a Igoumenitsa: “Qui ho conosciuto un trafficante di essere umani, di etnia curda di nome Shiva – ricorda – A questo individuo ho dato 1000 euro in contanti al fine di essere agevolato a raggiungere clandestinamente l’Italia a bordo di una delle tante navi in partenza da quel porto”.

Il fuoco e la fuga. “Il pavimento era incandescente”
La sera di sabato 27 dicembre, verso le 22, Shiva dice ad Aziz dove saltare la recinzione dell’area portuale: “Una volta dentro mi nascondeva nella parte sottostante di un tir che si imbarcava a bordo della nave, parcheggiandosi nella parte centrale del garage”. Per paura di essere scoperto rimane accucciato sotto il camion, con il telefono spento, così come gli era stato raccomandato dal trafficante. La sua ricostruzione è identica a quella del connazionale Ramazan Mohammadi, 22 anni, e di Mohammad Taher, un profugo siriano all’epoca 18enne. “Dopo circa due ore dalla partenza, ho avvertito la presenza di fumo provenire dalla parte anteriore della nave, nonché un forte odore di bruciato – ricorda Ramazan – Dopodiché ho sentito un forte rumore provenire dalla parte anteriore. L’aria del garage era diventata irrespirabile, a tal punto che scendevo dal mio nascondiglio per capire cosa stesse accadendo”. Ecco le fiamme, la fuga, l’incontro dei tre a prua con almeno altri 7 clandestini e un camionista greco, Leonidas, che fino a poco prima riposava sul suo tir accanto al carico di frutta destinato al mercato tedesco. Topi in trappola perché le porte per risalire le scale sono di fatto sbarrate, mentre ai piani superiori è il caos. Mohammad rimette in fila quei momenti: “Il pavimento iniziava a diventare incandescente. Incontro un gruppo di persone quasi tutti clandestini che cercavano anche loro una via di fuga sicura. Nelle vicinanze c’era una fune attraverso la quale noi tutti scendevamo fino a raggiungere una zattera di salvataggio lanciata poco prima dal personale di bordo”.

Indagini ancora aperte. Il papà: “Aspetto il tuo sorriso”
Perde la presa, Mohammad, e finisce in mare: “Grazie all’intervento di un ragazzo che era già sul gommone riuscivo a salire a bordo. Eravamo in quattro, siamo rimasti in balia delle onde, che erano altissime, per molte ore”. Con loro c’è Leonidas: “Non riuscivo più a muovere gli arti per il freddo e i due afgani, restando abbracciati a me, sono riusciti a riscaldarmi nonostante anche loro fossero bagnati”. Quando il sole è ormai alto, arriva il mercantile Spirit of Pireus a recuperare i naufraghi. Mentre i soccorsi iniziano la spola tra il Norman Atlantic e la Puglia, il papà di Raed vede in tv le prime immagini del traghetto in fiamme. Si agita, avvisa i fratelli, prega che tra le persone salvate ci sia anche il figlio. Ma il piccolo siriano non comparirà mai nelle liste dei sopravvissuti e il 30 dicembre 2015 le autorità greche consegneranno a suo padre un certificato di morte presunta. L’inchiesta sulle cause del naufragio – per il quale sono indagate 19 persone – è ancora aperta. Oggi Ahmad vive da rifugiato in Germania, meta che avrebbe voluto raggiungere quella sera, assieme al resto della sua famiglia. “Aspetto il tuo sorriso. Ma nessuna risposta”, ha scritto una decina di giorni fa su Facebook accanto a una foto del piccolo Raed.

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