di Massimo Arcangeli

Da un po’ di tempo tutto sembra poter diventare un gioco. Lo scopo non è di arrivare alla verità ultima ma piuttosto di negare la penultima per scalzarla e sovrapporle la propria, senza cedere di un millimetro nemmeno di fronte all’evidenza. A essere implicata una post verità le cui mutevoli facce si moltiplicano ogni giorno di più.

Può sembrare che stia facendo qui lo stesso gioco per aggiudicarmi la posta su quel che è uscito (sempre più migliori) dalla bocca della ministra Valeria Fedeli. Non ci può però esser dubbio, se valutiamo bene il tutto, che la ministra dell’Istruzione sia incappata in uno svarione. Può capitare a tutti, per carità, bisogna solo avere il coraggio di ammetterlo. Un coraggio che è mancato, almeno finora. Qualcuno si è intanto sostituito ai difensori d’ufficio per perorare una causa persa in partenza.

Ecco ciò che ha detto la ministra: “C’è il rafforzamento della formazione per i docenti, che svolgono le funzioni di tutor dedicati all’alternanza, perché offrono percorsi e assistenza sempre più migliori… [piccola esitazione] a studenti e a studentesse”.

Adriano Sofri e Stefano Bartezzaghi sono fra quelli che hanno provato a difendere l’indifendibile. Il primo, nel suo intervento sul Foglio (21 dicembre), ha giocato il più classico dei giochi a somma zero: uno vince e l’altro perde (al massimo può scapparci un pareggio). Meglio allora attaccare subito, in apertura del pezzo, senza mezze misure: «Si arrangi lei, la signora Valeria Fedeli, io vorrei mandare a quel paese i suoi correttori». Ne ha mandati un bel po’ a quel paese, Sofri. Compreso il sottoscritto. Anch’io ho detto che sì, la ministra Fedeli è incespicata sulla grammatica, e invece lui, Adriano Sofri, ha scritto che no, che la ministra ha detto giusto. Perché sempre più potrebbe essere un inciso, «maldestro per la posizione nel periodo che induce la lettrice a pronunciare il più vicino al migliore. Un’altra possibilità è che la mescolanza di letto e parlato abbia tradito la lettrice-parlatrice che avrebbe detto “sempre più adeguati”, o “sempre più ricchi”, o sempre più qualunque altro aggettivo di grado positivo, e si sia trovata poi a completare il suo “sempre più” con il malcapitato “migliori”». Perché, continua Sofri, è normale dire o scrivere vieppiù migliori: quel vieppiù, composto da un antico vie (‘ancora, assai’) e da più, non significa forse ‘molto più’ o ‘sempre più’? Perché nel Cinquecento, infine, qualcuno ha pur scritto più meglio (1529, Francesco Belo), e la stessa forma avrebbe usato Antonio Fogazzaro, tre secoli e mezzo dopo, in quest’esempio: «Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio» (1881).

Peccato che in quel vieppiù non conti tanto che il più sia «chiaramente riferito al via e non al migliori», come pensa Sofri, ma piuttosto che si faccia fatica a riconoscerlo in quanto tale perché unito al vie precedente (per lo stesso motivo non ravvisiamo l’articolo lo in perlopiù e perlomeno, altrimenti scriveremmo per il più e per il meno). Peccato che la lingua italiana, anche solo dall’Ottocento a oggi, abbia avuto la sua bella evoluzione. Peccato che la ministra avesse di fronte un testo scritto, su cui c’era evidentemente scritto “sempre più migliori” (migliori, non ricchi e nemmeno adeguati). Si può anche essere liberi di pensare che quel testo recasse scritto «percorsi e assistenza, sempre più, migliori» (un assist per la ministra) ma ci si arrampica sugli specchi e, in ogni caso, Fedeli avrebbe allora letto male e, nuovamente, avrebbe sbagliato: chi abbia ascoltato bene l’audio del suo intervento si sarà accorto che le parole incriminate sono state scandite in questo modo: «sempre // più / migliori» (l’inciso non c’è, e la pausa fra sempre e più è addirittura maggiore di quella fra più e migliori).

Stefano Bartezzaghi, in uno scambio con Mattia Feltri, si è giocato così le sue carte:

L’ipotesi è fra quelle ventilate da Sofri – riaffiora l’inciso –, ma è giocata diversamente. S’inverte la sequenza e, oplà, il gioco è fatto. Purtroppo no, non funziona così, e chi ha dimestichezza con le lingue lo sa bene. Altrimenti non si spiegherebbe la differenza, per fare un esempio banale, fra Nessuno me l’ha detto e NON me l’ha detto nessuno.

Infine, e andrebbe ribadito: migliore equivale a più buono e un parlante colto, avvertendo in qualche modo l’equivalenza fra sempre più migliore e sempre più più buono, tenderebbe, in modo del tutto naturale, a dire e a scrivere sempre migliore in ogni occasione (e, dunque: inciso o non inciso). Lo sappiamo tutti, e lo sa anche la ministra Fedeli. Ammetta il suo errore, non le costa niente. Aiuterebbe anzi un po’ tutti noi a riconoscerci nell’esigenza di una verità che sembra sfuggirci sempre più, nelle piccole cose e nelle grandi. Noi intanto, anche per alleggerire un po’ la portata del tutto, giocheremo nelle prossime settimane, su questo blog, proprio con l’italiano.

Articolo Precedente

Università, un movimento per la trasparenza e il merito. Il ricercatore: “Isolato perché denuncio”

next
Articolo Successivo

Fondi Ffabr, il disastro di un Paese che finanzia solo la ricerca degli altri Stati

next