Wikipedia non riporta grandi eventi nell’estate del 2012, ma per me è un periodo indimenticabile.

Il 30 giugno lasciavo la Guardia di Finanza dopo 37 anni di carriera in uniforme cominciata “da bambino” nel 1975 alla Scuola Militare Nunziatella. Rifiutavo il trasferimento dal GAT (il “Gruppo Anticrimine Tecnologico”, poi divenuto Nucleo Speciale Frodi Telematiche) al Centro Alti Studi Difesa dove avrei dovuto frequentare un corso nel quale insegnavo da sedici anni. Pagavo la colpa di aver ostinatamente proseguito le indagini che portarono alla quantificazione di quasi un centinaio di miliardi euro di danno erariale causato dalla concessione a società private del lucroso settore del gioco d’azzardo.

Nonostante quelle investigazioni avessero nitidamente anticipato gli scenari per cui oggi si scatenano agilmente strali e invettive contro personaggi politici decaduti ma al tempo di potenza inaudita, il non aver mai adottato una auspicata linea più morbida nel perseguire i responsabili di certe “irregolarità” ha portato al capolinea la mia avventura al servizio del Paese.

Il 5 luglio dello stesso anno la Suprema Corte di Cassazione chiudeva una delle pagine legate alla triste e funesta vicenda della “macelleria messicana” del G8 di Genova. Con la sentenza n. 6138 condannava in via definitiva il dottor Gilberto Caldarozzi, dirigente del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, a tre anni e otto mesi per “comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici”.

A settembre scorso, al termine dei cinque anni di interdizione dai pubblici uffici comminatigli come pena accessoria, il dottor Caldarozzi è stato reintegrato e assegnato alla Direzione Investigativa Antimafia come vice direttore operativo.

Quando me lo hanno raccontato, dopo aver capito che non si trattava di uno scherzo, ho compreso che questa Italia non può avere un futuro.

A dicembre scorso Peter Gomez ha scritto un affettuoso articolo intitolato “Laboccetta e Corallo in manette, ora le scuse a Rapetto”. Secondo Peter, “il presidente Sergio Mattarella che, a differenza del suo predecessore, spesso spiega come la corruzione e il malaffare siano una delle nostre più grandi zavorre, dovrebbe invitare Rapetto al Quirinale. Perché per cambiare verso più che le parole contano gli esempi. E quello di un generale che non si è piegato ha pochi uguali”.

Non mi dispero per non aver ricevuto medaglie o riconoscimenti, né per non essere stato invitato al “Colle” nemmeno per un caffè. Mi dispiaccio perché se davvero “contano gli esempi”, io sicuramente rappresento quello sbagliato.

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