L’Italia è salva, i negozi sono aperti anche a Natale: la domenica della Vigilia, il 26 dicembre, il 31 dicembre, il primo dell’anno, il 6 gennaio. Molti supermercati e centri commerciali rimangono aperti anche il giorno di Natale e diversi la notte, come ogni notte. L’Italia è salva nell’opinione di chi si proponeva di salvarla così: il Pdl di Berlusconi, la destra di Fini, il centro di Casini e il Pd di Bersani che il 22 dicembre 2011 votarono il decreto “Salva-Italia” in tutta fretta, per consentire a deputati e senatori di trascorrere in Natale in famiglia.

La manovra anti-crisi del governo Monti, oltre all’aumento indiscriminato dell’età pensionabile e all’immancabile scudo fiscale per i ricchi con i conti all’estero, prevedeva la totale deregolamentazione degli orari di tutti gli esercizi commerciali. Per salvare l’Italia bisognava lasciar fare al mercato: i negozi dovevano restare sempre aperti, a differenza delle scuole, degli ambulatori medici, dei parchi, delle biblioteche o dei musei, avendo il primo di quattro governi di larghe intese individuato come bisogno prioritario degli italiani non quello di curarsi, apprendere e socializzare ma quello di comprare e vendere qualunque merce a qualunque ora del giorno e della notte.

Il provvedimento ha avvantaggiato gli avvantaggiati e svantaggiato gli svantaggiati. Ci hanno guadagnato le grandi catene i cui grandi manager e proprietari passano le notti a letto e il Natale e le feste in famiglia al pari di deputati e senatori. Ne hanno approfittato per aumentare i profitti pagando qualche lavoratore interinale per infilarsi un cappellino rosso e bianco e trascorrere il Natale alla cassa, al banco frigo, al reparto giocattoli dei loro punti vendita sempre aperti nel mese in cui esplodono le assunzioni a tempo dei 500mila lavoratori somministrati. Impiegati, nel 95 per cento dei casi, per appena 12 giorni. Meno di due settimane è il dato medio, ma il 58 per cento viene assunto per meno di sei giorni e il 33 per cento per una sola giornata in cui il lavoro è particolarmente intenso: questa.

Il tutto a svantaggio dei piccoli commercianti, obbligati dalla concorrenza a lavorare sette giorni su sette per non rimetterci in soldi o a sacrificare una quota di profitto per non rimetterci in tempo di vita. Lo fecero notare ai tempi del decreto i rappresentanti della categoria, illudendosi di essere interlocutori privilegiati di quel governo così attento alle richieste delle imprese e così poco sensibile a quelle dei lavoratori: “Non è il modo per far aumentare i consumi. Al massimo si indirizzano tutti nel week end. A trarre vantaggio da questa legge saranno solo le reti della grande distribuzione, pagheranno i piccoli esercizi che pian piano saranno costretti a chiudere. I centri storici quindi si spopoleranno e di conseguenza le fasce più deboli della popolazione, come anziani e disabili, per fare i loro acquisti dovranno spostarsi nei grandi centri commerciali”, disse Giuseppe Dell’Aquila di Confesercenti. La protesta dei commercianti viene abbracciata da Luigi Di Maio: “Anche le famiglie che possiedono o gestiscono esercizi commerciali hanno diritto al riposo”, dice il candidato premier del M5s, che ha presentato un’apposita legge. Giusto. Tuttavia, i commercianti possono scegliere. Chi invece non ha scelta sono i lavoratori, i commessi della grande distribuzione, obbligati attraverso il ricatto della mancata assunzione o del mancato rinnovo al lavoro notturno e festivo, nonostante le sentenze che in questi anni hanno ribadito il diritto del lavoratore al riposo e alle ferie così come previsto dalla Costituzione. “Il lavoratore non può essere costretto dal datore di lavoro a fornire la sua prestazione lavorativa nelle giornate festive infrasettimanali e ogni sanzione disciplinare è da ritenersi nulla”, recita la n. 16592 del 2015 della Cassazione. Sono molte le vertenze vinte dai lavoratori costretti al lavoro festivo da un contratto farlocco: la clausola che impone l’obbligo della prestazione non è valida – dicono i giudici – poiché un accordo dalle parti non può derogare ai principi di legge. Il governo Monti ha potuto concedere la libertà alle grandi catene di tenere aperti i negozi ma non cancellare la libertà del lavoratore di sottrarsi all’imposizione di lavorare a Natale e nei giorni festivi.

Le parti che negoziano non hanno però lo stesso potere contrattuale: chi cerca lavoro è sempre in una condizione di debolezza. I lavoratori accettano il lavoro festivo pur di portare a casa un mese di stipendio, una settimana, un giorno. Le loro storie le raccoglie da anni sul suo blog Francesco Iacovone, sindacalista Usb. I commessi vengono obbligati a firmare contratti-capestro. Se si rifiutano, restano a casa. per ottenere giustizia devono avere il coraggio e la possibilità economica di fare vertenza, attendere i tempi della giustizia, sopportare il licenziamento o le rappresaglie dell’azienda come il trasferimento nei reparti-confino o in un’altra città.

Iacovone segue le lotte di donne coraggiose come Valeria Ferrara, trentenne commessa dell’outlet di Castel Romano che si è ribellata all’imposizione lavoro nel fine settimana rivendicando il diritto a stare con suo figlio e che per questo è stata trasferita a 60 chilometri. Valeria non si è arresa, si è incatenata davanti alle vetrine del negozio. Ma per un lavoratore che non cede ce ne sono centinaia che sì: le commesse che si pisciano addosso perché non hanno il permesso di andare il bagno e quelli che piangono di nascosto nei camerini.

“E allora tutti ci dovremmo ricordare che ogni volta che la domenica varchiamo l’ingresso di un centro commerciale, da qualche parte, un diritto muore. Quando spiegazziamo la maglietta che la commessa deve ripiegare, magari a tarda sera, di domenica, con la famiglia che la attende a casa, un diritto muore ancora. E allora, la domenica stiamo lontani dai luoghi dello shopping. Facciamo rivivere il diritto al riposo, alla socialità, alla famiglia. Perché questa società ha più bisogno di relazioni umane che di shopping”, dice Iacovone, e lo dice a noi che abbiamo esultato per l’apertura notturna e festiva dei negozi.

A noi che non abbiamo protestato – non tutti, non abbastanza – quando ci hanno tolto i diritti come lavoratori ma abbiamo esultato quando ce li hanno riconosciuti come consumatori. Abbiamo goduto per la possibilità che ci veniva offerta dal governo che allungava l’età pensionabile di fare acquisti sette giorni su sette e comprare i regali di Natale la domenica di Vigilia, in tempo per acquistare un giocattolo ai nostri figli che ne hanno in media 238 a testa ma giocano solo con 12. Il dato riportato dal Telegraph è riferito ai bambini del Regno Unito ma la situazione non è diversa nel resto dell’occidente.

La maggior parte dei giochi, a Natale, viene acquistata negli Stati Uniti, dove crescono solo il 3 per cento dei bimbi di tutto il mondo circondati dal 40 per cento dei giocattoli. Lo certifica una ricerca dell’Università della California ed è un dato che basterebbe da solo a indurre una riflessione di buon senso, prima ancora che politica, sul modello di consumo e produzione che alimentiamo. Altri dati li ho citati a proposito dello sciopero dei lavoratori di Amazon nel Black Friday, il giorno in cui è partita la corsa all’acquisto dei regali di Natale: nella casa di un americano medio ci sono 300mila oggetti, motivo per cui le dimensioni delle abitazioni sono triplicate negli ultimi 50 anni. Accettando come un fatto naturale il consumo sfrenato finiamo per accettare come legittima la condizione che lo alimenta: lo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse naturali. Ma soprattutto – ehi! sveglia! – quei 300mila oggetti tocca poi tenerli in ordine, pulirli, lavarli a secco come recita l’etichetta, ossia portati in tintoria, ritirati in tintoria: quegli oggetti che crediamo di possedere finiscono per possederci. Non ci costano solo il tempo impiegato a guadagnare i soldi per comprarli, che già sarebbe un prezzo alto, ma anche quello impiegato per metterli a posto, smaltirli, cercarli: “Hai visto la mia maglia rosa? È sulla sedia. In Camera? No, in ingresso. Non quella, l’altra sedia. Non quella, quella rosa salmone…”

Queste conseguenze grottesche del consumo sfrenato – mortificanti per chi ha l’opportunità di consumare in eccesso più che per chi non ne ha la possibilità economica – non le avevano previste nemmeno i più attenti critici della società dei consumi ai suoi albori: Marx quando ci metteva in guardia contro il feticismo della merce o Thorstein Veblen quando alla fine dell’Ottocento teorizzava il consumo “ostentativo” delle classi agiate, comprare una merce per esibire il proprio status sociale. Oggi che vittima del consumo ostentativo sono tutti i consumatori – schiavi di cose comprate per dimostrare di averle potute comprare – sarebbe bello se acquistassimo anche per quest’anno il regalo di Natale più esclusivo: niente. La sola cosa che nessun altro ha. Immaginate lo slogan: “Niente, ce lo avrai solo tu“. Funziona! “Cosa ti serve? un Ferro da stiro, un bracciale Pandora o… niente? Niente! Non sporca, non ingombra, non pesa, non si rompe, non inquina. Disponibile anche nel maxi-formato famiglia Niente di niente”. Buon Natale a chi ci crede e a chi no: che sia per tutti una festa.

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