In questi giorni la magistratura è al centro del cosiddetto scandalo delle studentesse costrette a subire un dress code (e non solo) inclusivo di minigonna e tacco 12 per seguire il corso in magistratura tenuto dal consigliere BellomoCredo però, che a prescindere dal lato scandalistico, sia opportuno analizzare la questione sotto un profilo diverso e strettamente tecnico.

Innanzitutto si deve rilevare che Bellomo era stato autorizzato da anni (e per anni) a tenere i corsi, ma la questione, almeno quando ero giudice Tar, della autorizzabilità di incarichi presso società private è sempre stata contestata da una parte dei giudici amministrativi. Facendo una ricerca sul sito www.giustizia-amministrativa.it risulta che sono almeno otto i corsi per magistrati tenuti dai consiglieri di Stato, come risultanti dalle delibere del Csm dei giudici amministrativi (il Cpga). A questi vanno aggiunti forse altri consiglieri di Stato che, direttamente o indirettamente, collaborino con tali società a vario titolo (e sarebbe interessante e curioso andare a vedere presso la Agenzia delle Entrate i redditi di tali singoli magistrati, per avere maggiore chiarezza sulla esistenza e sulle eventuali dimensioni del fenomeno).

A ciò si aggiunga un possibile meccanismo – lecito – di “aggiramento” (perché che evita le autorizzazioni): le lezioni on line. Ove le stesse vengano vendute come format scritto (cioè un articolo o una dispensa), le stesse, per gli autori, potrebbero essere considerate (e fatturate) come diritto di autore. In sostanza i magistrati farebbero (e le società vendono) corsi per la magistratura, ma risultano solo autori di pubblicazioni. Ne sono coinvolti alcuni consiglieri di Stato?

Ciò detto non può quindi che rilevarsi che, in sostanza, la “rovina” di Bellomo (e del fatturato di 1.200.000 euro annui della società cui è collegato) non farà altro che spostare probabilmente tale lucroso guadagno su altri Consiglieri di Stato: chi vuole fare il magistrato segue questi corsi e, stante il divieto per i giudici ordinari (sempre rispettato?) la maggior parte degli studenti “ex Bellomo” finiranno per forza di cose a seguire i corsi tenuti dagli altri consiglieri di Stato.

Sotto il profilo che mi interessa, del quale le precedenti considerazioni sono una necessaria premessa, emerge quindi che circa il 5-10% dell’adunanza generale del Consiglio di Stato (che in teoria annovera 100 consiglieri e 18 presidenti, ma in realtà sono molti di meno), che dovrà decidere sul caso Bellomo, ha sostanzialmente un conflitto di interessi diretto. Ne consegue che “il giudice” che dovrà giudicare su Bellomo non è all’apparenza imparziale (e la giurisprudenza ha infatti chiarito che i giudici non devono solo essere imparziali, ma anche apparire tali). Come se non bastasse, se Bellomo venisse condannato in sede disciplinare, il provvedimento sarebbe impugnabile davanti al Tar e, poi, in appello dinnanzi al Consiglio di Stato. In sostanza coloro che hanno deciso sul destino di Bellomo dovrebbero poi decidere sul ricorso giurisdizionale avverso… lo stesso provvedimento che hanno emesso!

In conclusione, potrebbe essere tutta una fatica inutile: la violazione del principio di equità (ed imparzialità) del giudice previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo è davvero palese, e, ricorrendo alla Cedu, Bellomo otterrebbe facilmente un giudizio favorevole, cui potrebbe seguire la rimessione in ruolo, gli arretrati dello stipendio, un sostanzioso risarcimento del danno e… tante scuse!

Se non si stabilirà un divieto generalizzato per i giudici amministrativi di svolgere tali corsi (che tante risorse tolgono alla giustizia amministrativa, sin troppo lenta) si finirebbe solamente per giovare, soprattutto, lo stesso Consiglio di Stato, cioè gli “eredi” dei corsisti “ex Bellomo”. Che sia l’ora di un deciso intervento legislativo sulla giustizia amministrativa?

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