Quaranta anni di indagini fatte male e veri e propri depistaggi. Ma arrivata alla terza relazione la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro fornisce ora un punto fermo: quel che abbiamo saputo fino ad ora del rapimento, dell’omicidio e delle indagini del presidente della Democrazia Cristiana è frutto di una “verità dicibile“, come la definisce il presidente della commissione Giuseppe Fioroni. Una verità “dicibile”, di comodo, alla quale hanno contribuito i soggetti “che operarono attorno al percorso dissociativo di Valerio Morucci: i giudici istruttori Imposimato e Priore, il Sisde, alcune figure di rilievo della politica e delle istituzioni, suor Teresilla Barillà“, la religiosa mandata da Francesco Cossiga nelle carceri più come spia che per dare conforto ai detenuti.

La terza relazione della commissione Moro è oggi in calendario in Aula alla Camera. Non è quella conclusiva, anche se non è certo se si arriverà a una sintesi anche perché le attività d’indagine possono proseguire fino allo scioglimento della legislatura, peraltro sempre più prossimo. Dopo 164 sedute plenarie in 4 anni il materiale raccolto è molto. In parte è ancora sotto segreto perché consegnato alla Procura di Roma che ha un fascicolo aperto, altro alla Procura generale della Capitale che segue alcuni specifici filoni soprattutto sulla strage di via Fani.

La verità “dicibile”, dunque, come pagina inversa rispetto alle “verità indicibili” cui ha spesso fatto riferimento procuratore alla corte d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Si legge nella relazione che lo spazio di dialogo tra Morucci e le istituzioni “di per  sé non implica che le dichiarazioni processuali di Morucci siano viziate. È però innegabile che, con il concorso di forze diverse, si venne a creare una posizione processuale particolarmente garantita, nella quale il ruolo testimoniale scoloriva in una più ampia e opaca funzione consulenziale del Morucci, quasi realizzando concretamente una trattativa che veniva pubblicamente negata”.

Nel caso Moro, dunque, secondo la relazione della commissione, attorno alla figura di Morucci, ex brigatista responsabile logistico delle Brigate Rosse, è stata creata una grande operazione di sdoganamento di una versione dei fatti falsa. Dall’agguato di via Fani alla prigione di via Montalcini, dalla dinamica della fuga ai contatti con il mondo politico esterno alla prigione, la circolazione degli scritti di Moro e la loro misteriosa scomparsa, tutto è stato raccontato secondo una modalità concordata, lungo un processo di “stabilizzazione della verità parziale, funzionale a una operazione di chiusura della stagione del terrorismo che ne espungesse gli aspetti più controversi, dalle responsabilità politiche e istituzionali al ruolo di quell’ampio partito armato, ben radicato nell’estremismo politico, di cui le Br costituirono una delle espressioni più significative del terrorismo”.

Parole che trovano dettaglio nelle molte pagine della relazione che spiegano passo dopo passo la costruzione del Memoriale Moro e un suggello nelle attività di consulenza avviate da Morucci con l’intelligence: già nel 1984 il direttore del Sisde Vincenzo Parisi trasmetteva al Cecis (l’organo di coordinamento dei Servizi) una lettera (12 aprile ’84) nella quale Morucci esponeva il “personale programma di politica carceraria, finalizzato ad un uso del carcere in funzione ‘controemergenziale’ e a una ricerca di ‘soluzione politica’”. L’anno successivo, nel 1985, sempre il Sisde considerava Morucci “una fonte da cautelare in assoluto”. Tra il 1986 e il 1987 il rapporto Morucci-Sisde appare continuativo e presenta diversi aspetti di tipi consulenziale, anche in una fase in cui Morucci rendeva dichiarazioni nei processi Metropoli e Moro-ter, fortemente segnati dalla sua collaborazione.

Certo è che nel luglio 1988 una copia del “Memoriale” identica a quella che sarà resa nota nel 1990 era già stata acquisita dal Sisde, tanto da poter affermare che quel documento, su cui sono stati imbastiti processi e scritti libri, più che un Memoriale sia piuttosto un dossier dei servizi, servito sul piatto d’argento ad una classe politica e giudiziaria impegnata principalmente a conservare il proprio ruolo. Già in sede di pubblicistica il Memoriale era stato buttato giù dal piedistallo, ora c’è molto materiale che dimostra puntualmente la grande operazione di imbrigliamento della verità.

E non è poco, insieme a tanto altro: a proposito di depistaggi, lo stabile di via Massimi 91, quello nel quale avviene con quasi certezza lo scambio delle auto usate dai brigatisti, è l’unico della zona “sensibile” di via via Fani che non fu perquisito: forse per un milieu abbastanza elevato di cui facevano parte cardinali e prelati, “come il cardinal Egidio Vagnozzi, già delegato apostolico negli Stati Uniti e, dal 1968, Presidente della Prefettura per gli affari economici della Santa Sede, e il cardinal Alfredo Ottaviani. Risulta inoltre, da alcune testimonianze, un’assidua frequentazione del complesso da parte di monsignor Paul Marcinkus. Alcune testimonianze indicano anche una frequentazione dei prelati in questioni da parte di Moro e dell’onorevole Piccoli”.

All’interno del complesso si riscontrano tuttavia anche presenze di altro genere, che potrebbero aver avuto una funzione specifica in relazione al sequestro Moro. Lì abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, già attiva nel movimento estremista “Due giugno” e compagna di Franco Piperno. Secondo la testimonianza di più condomini Piperno frequentava quell’abitazione e, secondo una testimonianza che l’interessato ha dichiarato di aver appreso dal portiere dello stabile, lo stesso Piperno avrebbe da lì osservato i movimenti di Moro e della scorta.

Oltre ad una serie di personaggi legati alla finanza e a traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente va sottolineata la presenza di una società statunitense, la Tumco, compagnia americana che nel 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e Usa in Turchia e attività di intelligence a beneficio dell’organo informativo militare statunitense la cui sede era in edificio di Via Veneto a Roma, noto come The Annexe, “l’annesso”, l’edificio supplementare. ra le altre presenze significative nel complesso c’è poi quella di Omar Yahia (1931-2003), finanziere libico, legato all’intelligence libica e statunitense, il cui ruolo è ampiamente trattato nella sentenza-ordinanza “Abu Ayad”. Di certo lì, in via Massimi 91, nell’autunno del ’78 per diverse settimane venne ospitato Prospero Gallinari: riservati i nomi dei suoi due ospiti per tutelare le indagini ancora in corso.

Ma è nebbia, dunque, sulla prigione di Moro, mentre si infittisce il materiale che offre spunti di indagine e di ricostruzione letteraria – nuovi elementi sulle protezioni di Alessio Casimirri, una confessione in punto di morte del maresciallo Angelo Incandela sulle carte trovate dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, una inedita dichiarazione del pentito Michele Galati sul sacerdote che andò nella prigione a confessare Moro. Forse con più ordine metodologico si poteva ottenere di più, ma c’è tanto per riflettere e discutere. Chissà se la politica se ne occuperà.

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