#Diversodachi

Correva il 2006 quando il “collega” di distrofia Piergiorgio Welby ricorse alla morte assistita. Quel giorno lo ricordo bene perché con Welby sentivo di avere qualcosa in comune: e non mi riferisco solo alla malattia – benché lui avesse la distrofia di Becker, ovvero l’inglesina secondo il mio vocabolario – ma bensì per l’amore che nutriamo per la vita. Eh sì chi mi conosce l’ha sempre sostenuto, per cui alla fine mi hanno convinto: e va bene amo la vita, soddisfatti ora?

Proprio per questo oggi parleremo della morte, perché non è nascondendoci dietro a un dito che l’affrontiamo: tendiamo a non pensarci, come se così potessimo allontanarci da questo spettro. Quando la verità è che con lei dobbiamo fare i conti e dobbiamo farlo anzitempo, soprattutto adesso che qualcosa sta cambiando: infatti se prima la morte arrivava quasi improvvisamente, con i progressi tecnologici in campo sanitario il suo processo si prolunga sempre di più (non a caso si parla di fine vita).

E alla tecnologia io non posso fare altro che inginocchiarmi – sempre in termini metaforici – perché per me essa si traduce in un respiratore. Il respiratore è quell’aggeggio che si trova alle mie spalle e che mi tiene costantemente compagnia: ho cercato più volte di seminarlo accelerando con la carrozzina, ma lui è sempre lì, per cui alla fine non ho potuto far altro che accettarlo.

Accettarlo è stata la cosa più intelligente che potessi fare: quella fastidiosa presenza alle mie spalle è semplicemente vita, perché senza di esso certamente non giocherei più nella squadra dell’al di qua (colloco la data della mia presunta morte al 2008); è vita all’aria aperta, perché la sua invenzione mi ha evitato di vivere nel polmone d’acciaio (ovvero confinato in una stanza d’ospedale) e l’introduzione delle batterie mi ha evitato di vivere tra le quattro mura di casa; quindi è diventato vita sociale. Infatti mi permette di essere qua a scrivere e di raccontarmi (purtroppo per voi); di essere diventato giornalista o di essermi candidato alle elezioni comunali; di socializzare e relazionarmi con il mondo circostante; di poter fare all’amore o di poter uscire… ovvero mi permette di vivere dignitosamente, sia dal punto di vista della salute che del resto – perché solo la salute permette la realizzazione del “resto”.

Tuttavia anche per il respiratore c’è un ma, perché c’è sempre un “ma”, e il suo risiede nella sua straordinarietà: è così performante, infatti, da riuscire a superare quel limite, ovvero tenere in vita un corpo che di vivere non ne vuole sapere. Si trasforma così in accanimento terapeutico, che si traduce in sofferenza per chi lo vive. Proprio su questa tematica Papa Francesco è recentemente intervenuto, richiamando a «un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti per il corpo, ma non sempre giovano al bene integrale della persona». Arrivati a un certo punto, probabilmente insostenibile, sia Welby che dj Fabo hanno deciso di dire basta, perché io credo che il vero coraggioso non è colui che non si arrende mai ma è colui che capisce quando è arrivato il momento di farlo: per cui non esaltiamo chi non si arrende e non giudichiamo chi lo fa.

Perché l’unica cosa da fare in questo caso è immedesimarsi, e domandarsi: “Che cosa avrei fatto al loro posto?”. Poi qualsiasi sia la risposta, chiedersi: “In che cosa consisterebbe la mia libertà d’azione e che assistenza avrei?”. Perché se vi trovaste nella condizione di poter decidere e nel vostro fisico trovaste l’impedimento a mettere in atto tale decisioni, cosa fareste? Io da pigro ed esperto esemplare di disabile chiederei aiuto

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