Suonerà come una constatazione un po’ crepuscolare, ma non è errato affermare che siamo fatti di ricordi. I ricordi raccontano e costruiscono la nostra storia, le nostre storie personali, e ci permettono addirittura di ricostruire una narrativa sociale di alcuni luoghi che del passato sono stati protagonisti. Tallinn e l’Estonia sono, per molti aspetti, al centro dell’Europa: la Repubblica baltica affronta le fasi conclusive del semestre di presidenza europeo, ed è tra i Paesi più all’avanguardia al mondo per sviluppo di servizi digitali per i cittadini ed efficienza della pubblica amministrazione. Ma come nel resto del continente, anche all’interno di una nazione così piccola prendono forma quelle disuguaglianze centro-periferia che possiamo apprezzare nel resto del continente. Questo piccolo reportage parla anche di loro, i left behind, dalla globalizzazione e da se stessi, alla periferia dell’Unione e al confine con un vicino influente e ingombrante.

Ho fatto rotta verso Narva, terza città più popolosa dell’Estonia, collocata al confine orientale con la Russia e sede di una delle fabbriche tessili sovietiche più grandi tra quelle attive nel periodo della Guerra Fredda. Oggi il luogo versa in uno stato di abbandono e incertezza sul suo destino: conversando con Ivan Sergejev, architetto e capo del settore urbanistica del comune, scopro che i piani degli investitori prevedono – purtroppo, per il momento – di trasformare l’immensa Kreenholm, nome del complesso, in una zona di passaggio tra i due Paesi con centri commerciali e altre attività ricreative.

Una fabbrica che negli anni 70 impiegava circa 12mila persone ed è stato uno dei fulcri di eccellenza della produzione nel settore manifatturiero dell’Unione Sovietica, rischia ora di diventare una cattedrale nel deserto per transfrontalieri e avventori della domenica. Ma il luogo, una città nella città che ne ha addirittura modificato la mappa e la composizione demografica nel corso dei decenni, occupa ancora un posto di tutto rispetto nei ricordi degli abitanti e degli ex operai, in particolare di coloro che sono stati licenziati nelle fasi critiche della storia più recente della manifattura.

Grazie all’aiuto essenziale di Maria e Anton Ossipovsky, amici e imprenditori locali, ho incontrato Vladimir Sang (60) e Ljubov Prokofieva (68), che hanno lavorato presso la fabbrica rispettivamente dal ’78 al ’91 e dal 1993 al 2005. Un uomo e una donna, tempi diversi, ma la stessa nostalgia per le memorie legate ad un luogo che ha animato la vita della città fino alla privatizzazione nel 1994 e al 2010, anno della definitiva bancarotta della società che ne gestiva le attività nel ventennio successivo all’indipendenza estone. Storie di ricordi e malinconia ma, a sorpresa, senza recriminazioni: la dura vita in fabbrica ora viene vista con dolcezza e affetto, ma i rimpianti sono solo per la giovinezza andata e per la mancanza di possibilità di rilancio significative per una città che, uscita dal radar dei centri della produzione industriale nell’Europa orientale, ora fatica a trovare possibilità di rinnovamento. Con una popolazione prevalentemente di etnia russa (83%, solo il 4% di etnia estone) e in un Paese dove le disuguaglianze in termini di reddito sono aumentate dopo la crisi del 2009, nonostante la forte crescita economica, gli investimenti stentano ad arrivare e le politiche di sviluppo per la coesione territoriale sembrano riguardare la regione solo marginalmente.

Non è un mistero, dunque, che parte della popolazione decida di aggrapparsi ai ricordi di tempi migliori per sorridere, sebbene con una smorfia malinconica. Vladimir è inarrestabile: chiedo di un singolo episodio, lui mi racconta sei storie di vita quotidiana con amici e colleghi di reparto scherzando e ridendo di gusto dopo leggere resistenze iniziali, e mi mostra addirittura un premio – col faccione di Lenin in primo piano – che ha ricevuto nel 1984 per le migliori attività ricreative organizzate dal Komsomol cittadino di cui era a capo. Ljubov, dal canto suo, è più riservata: c’è un orgoglioso pudore nelle sue memorie, ma la narrazione didascalica subisce delle crepe quando, ricordando un giorno in cui risolse una situazione complicata per la sua unità, gli occhi si fanno lucidi e qualche lacrima nostalgica le riga il volto fiero.

Dopo quasi due ore insieme, saluto i due e resto a chiacchierare con Maria e Anton. Può un luogo che significa tanto per un’intera comunità avere una seconda vita, senza necessariamente rischiare di relegare alle statistiche la memoria storica del passato che ha reso importante una città ora sfiorita? Il mio primo impatto con Narva, confine estremo dell’Unione Europea, sono stati dei palazzoni grigi in stile tardo-modernista, mentre nelle cuffie suonava un brano post-punk. L’ultimo, per ora, sono i racconti emozionali di due ex operai che hanno vissuto la storia di quel posto sulla propria pelle, e ne portano un ricordo non connotato politicamente, ma puro e personale. Se rimarrà questo l’ultimo baluardo dell’identità di un luogo dimenticato, la sua memoria, per quanto controversa agli occhi di alcuni, non potrà che subire lo stesso triste destino.

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